Da quando è iniziata l’emergenza per l’epidemia da coronavirus in Italia, la cosiddetta infodemia descritta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, da noi ha preso il sopravvento. Fa quasi ridere parlare di infodemia nel caso italiano.
Per chi è attento alla comunicazione dei nostri media, avrà notato quanto siano cambiati i toni da quando è iniziata l’emergenza a oggi.
Prendo spunto da un dato di fatto, che oggi (oggi) possiamo dare per certo: la maggior parte delle persone che finiscono in terapia intensiva è anziana ma…..ci finiscono anche persone giovani. Questa informazione sta cominciando a circolare, blandamente, sommessamente, in questi ultimi giorni.
Nei primi giorni di follia pura, serpeggiavano ovunque (media, dichiarazione di medici, politici, esperti…) affermazioni da brividi: “E’ morto ma era anziano, è morto ma era un malato oncologico”….tanti ma, inutili “ma”.
Eravamo tutti epidemiologi, anche se gli unici intitolati al ruolo, i professionisti dell’ Istituto Superiore Superiore di Sanità, sono stati convocati dopo. O meglio, si sono espressi “dopo” aver fatto i dovuti controlli, autopsie e analisi. Come è giusto che sia.
Quella che in apparenza sembrava un’epidemia che colpiva in modo grave anziani e soggetti con malattie croniche, si è rivelata capace di colpire chiunque.
Questa disinformazione di massa ha generato, inevitabilmente, un senso di sicurezza nei giovani italiani che si sono sentiti quasi intoccabili dalla malattia e si sono comportati di conseguenza. Non tutti naturalmente, ma una buona parte ha sottovalutato e sta ancora sottovalutando il problema. Io stessa per un certo periodo ho creduto di essere praticamente immune. In questi giorni, ma per trovare queste notizie bisogna davvero impegnarsi, scopro che anche io corro dei rischi. Forse non come mio padre che ha 70 anni e fuma, ma li corro comunque.
“Gli adolescenti si considerano immortali – ha commentato Massimo Galli, infettivologo e direttore del Reparto Malattie Infettive del l’Ospedale Luigi Sacco di Milano – Ma ci sono anche giovani in rianimazione con problemi decisamente seri. Trentenni e anche più giovani. Pochi casi, ma ci sono“. All’ospedale San Raffaele di Milano c’è addirittura un ragazzo di 18 anni. D’altronde il paziente uno di Codogno ha 38 anni e sono servite più di due settimane perché tornasse a respirare in autonomia, senza l’utilizzo della ventilazione automatica.
Anche un’analisi dell’Istituto superiore di sanità conferma questo scenario. “In questi giorni le cronache riportano molti esempi di violazioni delle raccomandazioni, soprattutto da parte dei giovani – sottolinea Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss -. Questi dati confermano come tutte le fasce di età contribuiscono alla propagazione dell’infezione, e purtroppo gli effetti peggiori colpiscono gli anziani fragili. Rinunciare a una festa o a un aperitivo con gli amici, non allontanarsi dall’area dove si vive e rinunciare a rientrare a casa è un dovere per tutelare la propria salute e quella degli altri, soprattutto i più fragili”. Dall’analisi, su 8342 casi positivi al 9 marzo alle ore 10, emerge che l’1,4% ha meno di 19 anni, il 22,0% è nella fascia 19-50, il 37,4% tra 51 e 70 e il 39,2% ha più di 70 anni, per un’età mediana di 65 anni. Il 62,1% è rappresentato da uomini. Sono 583 gli operatori sanitari positivi. il 22% di chi è risultato positivo al tampone ha tra i 19 e i 50 anni. Non solo, ma il 56% delle persone decedute fino ad ora aveva più di 80 anni e due terzi soffrivano già di altre patologie croniche. Se si leggono con attenzione, questi dati significano che muore anche chi non è poi così vecchio (il 44% delle persone decedute) e non aveva nessuna malattia pregressa (l’ultimo terzo).
Se invece che rincorrere la notizia o fare a gara a chi faceva uscire per primo il numero di morti aggiornato, ci fossimo soffermati di più sul motivo delle morti e avessimo sospeso il giudizio in attesa di capire il profilo reale delle persone colpite dall’epidemia, forse avremmo svolto un servizio di informazione più chiaro. Pochi numeri all’inizio, informazioni minime ma chiare e certe, avrebbero forse smorzato certi allarmismi e responsabilizzato tutti, senza far credere ai giovani di essere immuni. E senza far credere agli anziani e ai malati di essere dei morti viventi.
L’informazione, credo, non ha il compito di tranquillizzare, addolcire la pillola o, al contrario, terrorizzare. L’informazione, soprattutto quella in ambito medico e scientifico, ha il compito di informare sulla base di numeri certi e certificati, sulla base di evidenze scientifiche e affidandosi a fonti riconosciute e utili per l’informazione che si vuole approfondire. Chiedere a un pediatra quando terminerà l’epidemia o domandare a un oncologo, seppur di fama mondiale, come agisce il virus, ha poco senso. Sventolare il microfono a chiunque abbia una laurea in medicina non serve. I medici non sono tuttologi, passano anni a specializzarsi in una determinata branca della medicina perché vogliono diventare esperti in quel settore e non in un altro. Utilizziamo questa logica quando vogliamo intervistare qualcuno in ambito medico.
Spero che dopo questa emergenza l’informazione in ambito medico cambi radicalmente, adottando toni appropriati, fermandosi a controllare dieci volte le fonti, accertandosi dei dati e selezionando gli esperti da intervistare in modo congruo. Sospendendo il giudizio, le frasi causa effetto e eliminando qualsiasi tentazioni di ergersi ad epidemiologi. E, da ultimo, scegliendo di NON scrivere in caso di dubbio.
Oggi più che mai la Società ha bisogno di un’informazione corretta, trasparente, che non cerca il sensazionalismo o il click, ma che ha come unico obbiettivo quello di informare.
Oggi, in questa marea di informazioni, il ruolo del giornalista è prezioso come non lo è mai stato. Possiamo fare la differenza ed essere noi i primi ad arginare le “Infodemie”.