Corona Virus In Red Background - Microbiology And Virology Concept

Covid-19: non è solo una malattia respiratoria

La Covid viene spesso definita come malattia respiratoria, ma le evidenze scientifiche mostrano in maniera sempre più significativa quanto questa infezione non causi soltanto la polmonite interstiziale, ma abbia effetti su tutto l’organismo. Uno di questi è l’infiammazione dell’endotelio che è quella parte che riveste i vasi sanguigni e il cuore e che può causare diverse patologie vascolari.

Dottor Daniele Bissacco

In questi mesi di pandemia, soprattutto nella prima fase, non solo sono aumentati i casi di pazienti Covid con infiammazioni e patologie vascolari (come trombosi e altri disturbi a carico del sistema cardiaco) ma queste hanno riguardato anche i giovani, di solito meno interessati da questo disturbo che colpisce soprattutto con l’avanzare dell’età. Non solo, l’infiammazione da Covid lascia sulle pareti delle arterie cicatrici permanenti che nel tempo possono indebolire il sistema vascolare e portare a ricadute. Ne abbiamo parlato con Daniele Bissacco, chirurgo vascolare e research fellow del Policlinico di Milano nonché section editor di chirurgia cardiovascolare per la rivista Medici Oggi di Springer Healthcare.

Dottor Bissacco, quali evidenze scientifiche ci sono a supporto di questi effetti del coronavirus sul sistema vascolare periferico?

L’infezione da Covid, soprattutto all’inizio, è stata etichettata come una patologia puramente respiratoria. Con il tempo, si è visto che il tratto respiratorio e i polmoni sono solo la porta d’ingresso e la polmonite è una delle tante manifestazioni di questa patologia. Noi ora sappiamo che il virus entra all’interno delle cellule attraverso le vie aeree superiori e poi quelle inferiori, ma una volta inserito e replicatosi all’interno delle cellule polmonari, può tranquillamente agire e spargersi in tutti gli organi. Il danno d’organo che ne consegue può essere di due tipi: quello diretto, cioè causato dal virus all’interno delle cellule e quello indiretto, provocato dalla tempesta infiammatoria che il virus produce una volta che riesce a insediarsi in maniera significativa nell’organismo.

Per quanto riguarda l’apparato cardiovascolare, questi due meccanismi giocano un ruolo molto importante, prima di tutto perché il recettore ACE2 sul quale agisce il virus (è la porta d’ingresso nelle cellule) è ampiamente presente sia sulle arterie sia sulle vene del nostro corpo, in secondo luogo perché le cellule endoteliali, quelle che rivestono i vasi sanguigni, sono molto sensibili alla cascata infiammatoria e pro-trombotica scatenata dall’infezione da Covid. Quindi sì, c’è una correlazione con danni all’apparato cardiovascolare e gli studi hanno evidenziato delle patologie cardiache come infarto del miocardio o endocardite anche in pazienti senza patologie sottostanti aterosclerotiche. Anche a livello periferico (le arterie degli arti inferiori) si è visto un aumento notevole di patologie vascolari in pazienti Covid, quindi significa che le manifestazioni sono molto importanti in tutti gli organi e, essendo tutti gli organi irrorati dai vasi sanguigni, l’apparato cardiovascolare ha un ruolo principale in questo tipo di patologia.

Diversi articoli parlano dell’azione del virus sulle pareti dei vasi sanguigni davvero impressionanti, lascia dei segni comparabili a quelli presenti su una pista da hockey dopo una partita. È così?

Che sia hockey o altri sport, di certo sappiamo che è una partita dura e che avviene in maniera sistemica in tutti i vasi. Sono due i meccanismi con cui la Covid agisce in maniera patologica sui vasi sanguigni: il primo come già accennato è quello dell’endolite e cioè un’infiammazione importante delle cellule endoteliali con tutta la cascata infiammatoria che si ritrova anche in altri tipi di patologie infiammatorie; in secondo luogo, questo ambiente pro infiammatorio innesca tutta una serie di meccanismi che sono alla base delle trombosi venose e arteriose che in effetti abbiamo riscontrato nei pazienti Covid. Lo stadio finale di questi due meccanismi è il multiple organ failure, cioè una compromissione sistemica di tutti gli organi con, in alcuni casi, una prognosi infausta.

Quindi possiamo affermare che ci sono segni visibili a livello microscopico sulle pareti dei vasi e nella gestione dei pazienti Covid è essenziale prevenire questa infiammazione, perché è alla base di tutti i danni agli organi (rene, fegato, cuore apparato neurologico e soprattutto i polmoni), caratteristici di questa infezione.

 In questi mesi quali sono state le patologie vascolari più frequenti, sia nei pazienti Covid sia non Covid?  

Il problema di questa epidemia è che ha avuto effetti anche sulla popolazione negativa alla malattia. Quest’anno diversi medici hanno evidenziato significative differenze non solo nei pazienti Covid ma anche in quelli che non avevano questa infezione, sia come tipo di patologia vascolare sia come gravità.  È emblematico il caso delle arteriopatie degli arti inferiori, patologie che normalmente colpiscono le fasce di popolazione più anziane e hanno come fattori di rischio l’aterosclerosi e il diabete: in questo periodo si sono manifestate nei pazienti positivi alla Covid, ma sono stati più frequenti e più gravi in quelli negativi.

Questo si può spiegare con il fatto che, per la paura di spostarsi e per lo stato di emergenza, i pazienti erano più restii a recarsi in ospedale e quindi abbiamo visto quadri più importanti che magari in un ambiente privo di epidemie o comunque in una condizione normale avremmo trattato quasi tranquillamente. Invece in questi mesi, soprattutto per le arteriopatie degli arti inferiori – ma anche i cardiologi hanno visto un aumento degli infarti nella popolazione generale – i pazienti soffrivano a casa invece di presentarsi al pronto soccorso.

Si parla di lunga coda di questo virus, degli effetti sul lungo periodo: per chi ha avuto un’infiammazione vascolare, si può recuperare o il sistema vascolare rimane indebolito?  

In linea generale ogni malattia lascia un segno, e nel caso della Covid questi segni possono essere molto importanti. Quelli principali e quelli più studiati sono quelli polmonari, ma non dobbiamo dimenticarci che anche a livello cardiovascolare è probabile che siano presenti dei segni che nel lungo periodo possono dare problemi più o meno evidenti, a seconda della gravità della dell’infezione.

A livello vascolare, una trombosi lascia sempre una cicatrice, un po’ quello che dicevamo prima sui segni da hockey. Questa cicatrice è causata sia dalla patologia, sia da tutte quelle manovre che vengono messe in atto per guarire il paziente: il paziente con una trombosi arteriosa dell’arto inferiore dovrà essere operato, quindi sia la trombosi sia l’intervento a cui è sottoposto, lasceranno inevitabilmente dei segni che dovranno essere controllati nel tempo. Più importante è sicuramente il problema delle trombosi venose, delle trombosi distali (dal distretto femorale in giù) perché, non avendo a disposizione delle terapie che eliminano in modo istantaneo il problema, come accade per le arterie, la trombosi rimane e si deve effettuare il solito iter terapeutico. Questa formazione di trombi nelle vene anche a distanza di anni può portare a tutto un corredo di sintomi e segni simili a quelli che ritroviamo in una trombosi non Covid. Quindi questi pazienti (parliamo sempre di casi gravi) avranno delle cicatrici che dovranno portarsi per tutta la vita: i controlli post infezione sapranno assolutamente guidare e quantizzare il risultato e gli strascichi dell’infezione stessa.

Qual è stata la sua esperienza in Lombardia, come avete gestito i pazienti Covid e non Covid con patologie vascolari?

La Lombardia è stata una delle zone più colpite al mondo, per questo da subito a livello regionale si è imposta una divisione delle unità operative di chirurgia vascolare in hub and spoke. Gli hub vascolari erano quattro sul territorio lombardo e dovevano garantire un servizio h24, sette giorni su sette, per i pazienti positivi con complicanze a livello vascolare. Gli spot dovevano supportare l’attività degli hub, trasferirvi i pazienti nel caso non potessero curarli in loco e garantire comunque un servizio per i soggetti che si presentavano in pronto soccorso.

Attraverso quindi la Vascular Surgery Group di regione Lombardia stiamo effettuando delle analisi, alcune già pubblicate, in cui abbiamo valutato come è stato l’impatto dell’epidemia Covid negli spot e negli hub durante la fase 1, da marzo a maggio 2020. Sono stati arruolati più di 650 pazienti Covid positivi e negativi e si è visto che le arteriopatie degli arti inferiori sono state le patologie più frequenti nei soggetti positivi al SARS-Cov-2.  I risultati non sono stati simili a quelli che troviamo di solito nella nostra pratica clinica poiché i pazienti Covid positivi esprimevano un grado di retrombosi più grave e una quantità di reinterventi maggiore rispetto a quelli negativi. Inoltre, abbiamo notato molte trombosi su vasi sani di pazienti giovani che presentavano quadri clinici che solitamente ritroviamo in pazienti più anziani e portatori di aterosclerosi. In questo caso erano soggetti con vasi “puliti”, ma che avevano sviluppato trombosi, che è appunto la manifestazione finale della cascata infiammatoria e pro trombotica che la Covid innesca a livello dei vasi, anche in soggetti giovani.

Altre analisi sono in fase di pubblicazione, regione Lombardia si sta muovendo anche in questi mesi per vedere se ci sono variazioni tra la prima e la seconda ondata. Sono ricerche in divenire, solo il tempo ci dirà se i risultati sono confermati o meno e se ci saranno complicanze a lungo termine

Nella sua esperienza, in questa seconda ondata, rispetto alla prima, crede ci sia qualcosa di diverso?

È presto per dirlo, sicuramente anche in questa seconda ondata stiamo riscontrando trombosi, quindi questa patologia è tornata, e malgrado tutte le terapie che stanno funzionando, i tassi di mortalità più bassi e il miglioramento della gestione dei pazienti Covid a domicilio, la patologia vascolare è sempre quella. Forse ora, con questo lockdown più soft rispetto al primo, le persone si fanno meno problemi ad andare in ospedale e non si acutizzano a casa, quindi stiamo vedendo meno quello che succedeva nella prima ondata, con le persone che rimanevano in casa per paura e non si recavano al pronto soccorso. Ma è ancora presto per fare delle valutazioni conclusive.

è ancora presto per fare valutazioni definitive e ci vorranno anni prima di avere qualche certezza. di certo sappiamo che questo virus entra dai polmoni ma può arrecare danni a tutto l’organismo. E può lasciare strascichi importanti a seconda della gravità con cui si è manifestato. E in questa lunga coda non risparmia nessuno, né anziani né giovani.

Guarda il video con l’intervista:

Questa intervista è stata pubblicata anche su Medici Oggi, testata online di Spinger Healthcare Italia: https://medicioggi.it/interviste/covid-19-non-e-solo-una-malattia-respiratoria/.

Fonti

  • Bissacco et al, Is there a vascular side of the story? Vascular consequences during COVID19 outbreak in Lombardy, Italy, Journal of Cardiac Surgery, 04 October 2020 – https://doi.org/10.1111/jocs.15069

  • Bellotosta, D. Bissacco et al, Differences in hub and spoke vascular units practice during the novel Coronavirus-19 (COVID -19) outbreak in Lombardy, Italy, The Journal of Cardiovascular Surgery 2020;61(0):000–000 – DOI : 10.23736/S0021-9509.20.11564-7

  • Bellotosta et al, Acute limb ischemia in patients with COVID-19 Pneumonia, J Vasc Surg. 2020 Dec; 72(6): 1864–1872. 2020 Apr 29. doi: 10.1016/j.jvs.2020.04.483

  • Will Stone, Clots, Strokes And Rashes. Is COVID-19 A Disease Of The Blood Vessels?, npr.org – Novembre 2020.

  • Foto copertina by Jasmin Merdan/Getty Images
AMR

Antibiotico-resistenza: la Covid-19 potrebbe peggiorare la situazione?

Nella settimana dedicata all’uso degli antibiotici è giusto porsi questo quesito, che tanto banale non è.

Perché, secondo alcuni studi recenti, gli antibiotici si continuano a dare anche ai pazienti Covid che non hanno infezioni batteriche evidenti e questo potrebbe inasprire l’antibiotico-resistenza già presente a livello globale: secondo l’OMS entro il 2050 questa condizione potrebbe provocare 10 milioni di morti nel mondo.

Dall’inizio della pandemia da Sars-Cov-2 in Europa sono morte circa 250.000 persone. Ma quest’anno, secondo le previsioni, potrebbero perdere la vita nel Vecchio Continente 30.000 persone a causa dell’antibiotico resistenza (Anti Microbial Resistance, AMR). Larry Kerr, della Transatlantic Task Force on Antimicrobial Resistance, ha paragonato l’AMR a tanti piccoli incendi sparsi per l’Europa che rimangono invisibili rispetto alla catastrofe Covid-19, ma i primi non sono meno pericolosi della seconda.

Che cos’è l’antibiotico-resistenza?

Come suggerisce il nome, si tratta della resistenza da parte dei batteri agli antibiotici che dovrebbero distruggerli o perlomeno bloccarli.
La scoperta e l’utilizzo degli antibiotici hanno rivoluzionato il trattamento di molte malattie infettive. Tutti noi, diverse volte nella vita, abbiamo dovuto assumere un antibiotico, un farmaco che può essere di origine naturale (antibiotico in senso stretto) o di sintesi (chemioterapico), e che è in grado di rallentare o fermare la proliferazione dei batteri. L’antibiotico può essere pertanto batteriostatico (vale a dire che blocca la riproduzione del batterio) o battericida quando uccide direttamente il microrganismo.
Negli ultimi anni, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è aumentato notevolmente al punto da dover prendere provvedimenti a livello di sanità pubblica. Se non si riescono a curare le persone con gli antibiotici occorre infatti capire perché e soprattutto trovare una cura alternativa ed efficace.
L‘Italia poi vanta un triste primato: si calcola che nel nostro paese ogni anno siano circa 10 mila le vittime provocate dall’antibiotico-resistenza su 33 mila complessive in Europa. Siamo quindi il paese europeo con il più alto tasso di mortalità.
L’antibiotico-resistenza è causata soprattutto da un abuso degli antibiotici da parte delle persone, negli allevamenti intensivi e negli ospedali.

Come fanno i batteri a diventare resistenti agli antibiotici?

Esistono molti modi tramite i quali batteri possono acquisire una resistenza ad uno o più antibiotici. Uno dei principali si chiama “pressione selettiva”, quell’evento per cui un antibiotico riesce a eliminare parte dei batteri patogeni e quelli buoni della nostra flora intestinale, ma non riesce ad attaccare i batteri patogeni resistenti. Questi, anche se in numero inferiore, una volta che si trovano il campo sgombro dei batteri fatti fuori dall’antibiotico, possono replicarsi indisturbati. I batteri possono diventare resistenti agli antibiotici anche attraverso la trasmissione orizzontale (da un microorganismo all’altro) del materiale genetico. Questo meccanismo può avvenire tramite la trasmissione di plasmidi, piccoli pezzi di DNA batterico che possono essere facilmente trasferiti tra batteri e che possono far produrre enzimi in grado di conferire la resistenza agli antibiotici.

L’AMR in Italia e nel mondo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito un programma di sorveglianza globale, noto come GLASS (Global Antimicrobical Surveillance system) per monitorare a livello globale l’antibiotico resistenza e quindi la lotta alla sua diffusione. Al programma aderiscono 82 paesi e secondo uno degli ultimi report, ben 66 di questi hanno fornito dati sull’AMR.
Le indicazioni dell’OMS sono state recepite in Italia nel Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico-resistenza (PNCAR) 2017-2020 , con obiettivi di sorveglianza, prevenzione, comunicazione, formazione e ricerca volti a contrastare il preoccupante fenomeno. Nel nostro paese, secondo i dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità, la resistenza agli antibiotici è tra le più alte in Europa.

L’ISS pubblica regolarmente i nuovi dati della sorveglianza nazionale dell’antibiotico-resistenza AR-ISS e quelli della sorveglianza nazionale dedicata alle batteriemie causate da enterobatteri produttori di carbapenemasi (CPE), come le Enterobacteriaceae, famiglie di batteri che producono l’enzima carbapenemasi e per questo non sono più sensibili a una classe di antibiotici di ultima linea, i carbapenemi. Questo significa che l’unica opzione terapeutica utile è rappresentata da altri antibiotici che sono spesso tossici e non sempre efficaci.
Dai due Rapporti emerge che nel 2019 in Italia le percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici per gli 8 patogeni sotto sorveglianza (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species) si mantengono elevate e talvolta in aumento rispetto agli anni precedenti. Inoltre, gli oltre 2400 casi diagnosticati e segnalati nel 2019 evidenziano la larga diffusione in Italia delle CPE, soprattutto in pazienti ospedalizzati.

AMR e Covid-19, quale correlazione?

Secondo una revisione sistematica pubblicata sulla rivista Clinical Microbiology and Infection , tra i pazienti Covid ospedalizzati quelli che hanno presentato in questi mesi un’infezione batterica sono stati pochi (6,9%) a fronte però di un uso invece molto elevato di antibiotici, che in molti casi sono usati in modo empirico, vale a dire ancora prima di individuare l’infezione batterica. In via preventiva, per intenderci. Sebbene, infatti, gli antibiotici siano inefficaci per il trattamento della COVID-19, vengono prescritti a pazienti con questa infezione per diversi motivi: difficoltà nell’escludere un’infezione batterica in atto, ma anche per evitare un’infezione secondaria batterica durante il decorso della malattia. Guardando i dati di infezioni batteriche provenienti dalle analisi sulle pandemie influenzali, diverse linee guida sostengono in effetti l’uso di antibiotici per i pazienti con COVID-19 più gravi. Tuttavia, questa ipotesi solleva preoccupazioni per l’uso eccessivo di antibiotici e il conseguente danno associato alla resistenza batterica.

A guardare però altre analisi, la situazione sempre essere diversa, almeno in Europa. In un interessante editoriale su Eurosurveillance.org , si racconta come gli studi finora non riportino prove evidenti tra la Covid-19 e un peggioramento dell’antibiotico resistenza. Alcune ricerche, in particolare Germania, Italia e Stati Uniti, hanno riportato focolai o un aumento delle infezioni oppure acquisizione di batteri multiresistenti durante la pandemia COVID-19. Ulteriori studi hanno riportato casi di infezioni fungine invasive resistenti agli antimicrobici in pazienti COVID-19 e un caso di infezione da Aspergillus in un paziente immunocompetente COVID-19. Tuttavia, altri studi dalla Francia e dalla Spagna non hanno mostrato un aumento delle infezioni da batteri multiresistenti, e uno studio italiano ha anche visto una riduzione delle infezioni da Clostridioides difficile nei pazienti ospedalizzati. In una revisione, Fattorini et al. ha scoperto che solo l’1,3% dei 522 pazienti COVID-19 nelle unità di terapia intensiva, e apparentemente nessun paziente COVID-19 in altre unità, ha sviluppato una superinfezione associata a batteri resistenti agli antibiotici.

Benché non vi sia una prova certa tra la Covid-19 e il peggioramento dell’AMR, l’attenzione deve rimanere molto alta. Su Sanità24, l’infettivologo Massimo Andreoni , Ordinario di Malattie Infettive, Direttore UOC Malattie Infettive Tor Vergata e Direttore Scientifico SIMIT – Società Italiana di Malattie Infettive, spiega come i pazienti a maggior rischio di contrarre infezioni nosocomiali, sostenute da batteri multi-resistenti, siano quelli già più vulnerabili alle infezioni polmonari virali come influenza, sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e appunto Covid-19.

Le cause

Il problema della resistenza agli antibiotici è originato da cause diverse. Una di queste è sicuramente l’utilizzo non appropriato ( o potremmo chiamarlo abuso) di questi farmaci anche quando non è opportuno prenderli.

Tra le altre cause vi sono:

  • Utilizzo improprio degli antibiotici anche nella veterinaria
  • L’impiego diffuso degli antibiotici in zootecnia e in agricoltura ( soprattutto negli allevamenti intensivi)
  • La diffusione delle infezioni ospedaliere causate da microrganismi antibiotico-resistenti (e il limitato controllo di queste infezioni);
  • Una maggiore diffusione dei ceppi resistenti dovuta a un aumento dei viaggi internazionali e dei flussi migratori.

L’uso continuo degli antibiotici aumenta la “pressione selettiva” di cui abbiamo parlato prima favorendo la moltiplicazione e la diffusione dei batteri resistenti. Esistono anche ceppi di batteri resistenti a più antibiotici. I batteri antibiotico resistenti possono diffondersi tra le persone (ad esempio attraverso colpi di tosse, starnuti o il contatto di superfici contaminate), con la conseguente diffusione di infezioni difficili o addirittura impossibili da trattare.

L’antibiotico-resistenza negli ospedali

I pazienti ospedalizzati hanno una più alta probabilità di ricevere un antibiotico.
In ospedale, l’uso inappropriato di antibiotici si può verificare in diverse situazioni, tra cui:

  • Quando gli antibiotici sono prescritti senza che siano realmente necessari
  • Quando la somministrazione di antibiotici in pazienti critici è ritardata.
  • Quando antibiotici ad ampio spettro sono usati troppo spesso, o quando gli antibiotici a spettro ristretto sono usati in modo scorretto
  • Quando la dose di antibiotici è maggiore o minore di quella appropriata per uno specifico paziente
  • Quando la durata del trattamento antibiotico è troppo breve o troppo lunga.

L’uso prudente di antibiotici può prevenire la comparsa e la selezione di batteri antibioticoresistenti, come il Clostridium difficile, uno dei batteri più pericolosi. Alcune misure come la formazione continua, politiche e linee guida basate sull’evidenza, misure restrittive e consulenze da parte di infettivologi, microbiologi e farmacisti possono aiutare il personale sanitario ad utilizzare gli antibiotici in modo più prudente.

Le possibili soluzioni

Negli ultimi decenni, gli organismi internazionali tra i quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Unione Europea (UE) e il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC) hanno prodotto raccomandazioni e proposto strategie per contenere il fenomeno, riconoscendo l’AMR come una priorità in un ambito sanitario.
Anche se può sembrare una contraddizione, per limitare l’antibiotico resistenza ci vorrebbero nuovi antibiotici, superantibiotici, capaci di limitare questa resistenza. La pipeline di questi prodotti è però abbastanza esile perché non è facile dimostrarne il valore agli enti regolatori e andrebbe rivisto il sistema di valutazione dell’innovatività di questi farmaci.
L’OMS, in occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità (2015), ha adottato il Piano d’Azione Globale (GAP) per contrastare la resistenza antimicrobica fissando cinque obiettivi strategici finalizzati a:

  1. Migliorare la consapevolezza attraverso informazione efficace a operatori sanitari e popolazione
  2. Rafforzare la sorveglianza
  3. Migliorare la prevenzione e il controllo delle infezioni
  4. Ottimizzare l’uso degli antimicrobici nel campo della salute umana e animale
  5.  Sostenere la ricerca e l’ innovazione.

L’Unione Europea, impegnata da molti anni a combattere il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, nel 2017 ha messo a punto il nuovo Piano d’azione per contrastare l’antibiotico-resistenza, basato su un approccio “One Health” che considera in modo integrato la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente.

La gravità e diffusione di questo fenomeno hanno fatto attivare diversi sistemi di sorveglianza, basati sulla raccolta dei dati di laboratorio a livello locale o nazionale. Al fine di poter rendere interpretabili questi dati, nel 2000 è stata creata una rete di sorveglianza europea che nel 2010 è diventata EARS-Net (European Antimicrobial Resisitance Surveillance Network) coordinata dall’ECDC. EARS-Net rappresenta un network di reti nazionali che raccoglie i dati di antibiotico-resistenza di 30 Paesi europei.
In Italia a monitorare l’antibiotico resistenza è l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che coordina un network nazionale di laboratori ospedalieri di microbiologia che hanno come obbiettivo quello di descrivere frequenza e trend di antibiotico-resistenza in un selezionato gruppo di batteri isolati da certe infezioni particolarmente rilevanti (batteri nel sangue o meningiti).

I dati sono disponibili on line sul sito e in un rapporto annuale disponibile sul sito stesso dell’ECDC.

Per approfondire:

“Surveillance Atlas of Infectious Diseases”
“Quarta relazione sui progressi compiuti per l’attuazione del Piano d’azione Europeo “One Health” contro la resistenza antimicrobica”
“Piano d’azione europeo “One Health” contro la resistenza antimicrobica
Rapporti di Sorveglianza Nazionali AR-ISS e CPE
European Antibiotic Awareness Day
World Antibiotic Awareness Week

Fonti

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La corsa al vaccino per il Covid-19 servirà davvero?

Vi siete mai chiesti perché ogni anno, anche più di una volta nella stessa stagione, vi prendete il raffreddore? Sì, quella fastidiosa infezione virale causata anche dai coronavirus che vi fa colare il naso, vi causa spossatezza e in alcuni casi febbre, tosse e mal di gola. Che somiglia tanto all’influenza ma con cui non va confusa, perché i virus del raffreddore appartengono a famiglie diverse.

Ve lo prendete con cadenza annuale o pluriannuale perché il coronavirus causa una bassa risposta immunitaria, debole e breve e perché, anche se di poco, muta. Muta quel minimo che però impedisce ai vostri anticorpi di combatterlo in modo efficace, se non per un breve periodo di tempo.

Il vaccino per il raffreddore

Vi siete mai chiesti perché non esiste un vaccino per il raffreddore? Perché la risposta immunitaria che fornisce è troppo bassa e dura troppo poco e perché l’infame virus muta.

Ma finché si tratta di un raffreddore, uno si mette il cuore in pace, passa qualche giorno a letto con paracetamolo o acido acetilsalicilico e aspetta che passi.

Quando invece il coronavirus diventa più virulento e aggressivo, e oltre a febbre e naso colante causa polmoniti interstiziali, in alcuni casi fatali, abbiamo di fronte un nemico infame. Sars-Cov2 è causato da un coronavirus particolarmente virulento, ma che conserva le caratteristiche basilari di tutti i coronavirus. Come può quindi un vaccino essere efficace nel lungo periodo?

La corsa ai vaccini a cui stiamo assistendo tutti, che ricorda un po’ la corsa a conquistare lo Spazio durante la Guerra Fredda ( e infatti il vaccino appena annunciato da Putin è stato chiamato, non a caso, Sputnik) sa tanto di corsa politica ed economica, e meno di corsa a salvare vite umane.

Sul fatto che avere un vaccino sia meglio di non avere nulla siamo tutti d’accordo. Sul fatto che con il vaccino siamo tutti al sicuro invece io mi permetto qualche dubbio. Perché il coronavirus non è gestibile e controllabile come il virus del morbillo, che causa una risposta immunitaria molto più forte e duratura nel tempo. Il coronavirus è una brutta bestia che dovremo imparare a sconfiggere non solo con i vaccini, ma anche con terapie antivirali, antiinfiammatoria, immunomodulanti, cortisoniche e tutto l’armamentario farmaceutico che può venirci utile.

Vaccini, fasi tre velocizzate, human challenge trials e altre meraviglie

Anche se oggi fosse approvato un vaccino, dopo le tre fasi di sperimentazioni, ci vorrebbero almeno 6 mesi di continue valutazioni per testarne la reale efficacia nel tempo. Putin ha appena annunciato il termine della fase tre del suo vaccino Sputnik e ha detto che a settembre (quindi neanche un mese dopo) partirà con la somministrazione agli operatori sanitari. Al di là della forzatura e dei tempi bruciati, c’è il serio rischio non solo che la terapia non funzioni ma che possa essere anche più dannosa del virus stesso. Il tempo è fattore determinante del successo di qualsiasi sperimentazione. Accorciarlo non serve: si gioca a dadi con la fortuna, non si fa scienza. E l’etica della ricerca e il rispetto dei pazienti che si sottopongono a questa cura passano in secondo piano. L’importante è avercela fatta per primi.

Ma oltre al lancio dello Sputnik (nelle vene, questa volta) stiamo assistendo anche al tentativo di testare sulle persone i vaccini allo studio, facendole volontariamente infettare dal virus Covid-19. Al momento, infatti, nelle sperimentazioni ordinarie l’efficacia di un vaccino si misura solo valutando la risposta immunitaria che genera, in termini di qualità, quantità e durata degli anticorpi. Non si testa la cura esponendo il paziente al virus. Non sarebbe etico, giusto?

Però valutare l’efficacia di un vaccino misurando solo la risposta immunitaria non assicura una garanzia sull’efficacia contro il virus reale, anche perché il vaccino di solito (come nel caso del Covid-19) è realizzato con un agente virale che mima, somiglia, si avvicina al virus che si vuole colpire ma non è l’esatta copia. Per cui la certezza dell’efficacia si ha solo nel momento in cui il paziente dovesse contagiarsi davvero.

Ma esiste una forma di sperimentazione diretta sull’uomo, lo Human Challenge Trial, che invece consente, entro certi limiti legali, di esporre i pazienti volontari vaccinati direttamente al virus. Un centinaio di esperti ha scritto una lettera allo US National Institutes of Health chiedendo di iniziare queste sperimentazioni. E l’organizzazione 1 Day Sooner ha lanciato una campagna di reclutamento di volontari in tutto il mondo: al momento ci sono 33.000 volontari di circa 148 paesi.

Questa sperimentazione è stata già fatta in passato? Sì, per tifo, colera e altri…ma in quei casi era disponibile una cura nel caso in cui i volontari si fossero ammalati. Qui invece la cura definitiva non c’è.

Vaccino per il morbillo e vaccino per il raffreddore, che differenza c’è?

La differenza è soprattutto una: il vaccino per il morbillo (che oggi si somministra insieme a quello per la parotite e la rosolia) è fatto con un virus vivente, reso inoffensivo. I vaccini invece a cui si sta lavorando per il Covid-19 sono di tre tipi (RNA, DNA e proteico) e sintetizzati tutti in laboratorio. Per avere un vaccino efficace occorre che sia il più possibile simile a quello reale: nel morbillo si usa lo stesso virus, depotenziandolo, nel Covid-19 si usa un virus fatto in laboratorio: per forza di cose il primo è più efficace del secondo perché più simile al nemico che si vuole sconfiggere. Detto questo, il virus del morbillo genera una risposta immunitaria molto più forte e duratura nel tempo rispetto al coronavirus, come hanno dimostrato recenti ricerche scientifiche secondo cui gli anticorpi del Covid-19 iniziano a calare dopo tre mesi dall’infezione.  In estrema sintesi: se già il virus originale genera una risposta immunitaria debole, come si può pensare che il vaccino, che lo emula, sia più efficace?

Il vantaggio delle terapie

Il Dottor Alberto Enrico Maraolo

Ecco perché, oltre alla corsa per i vaccini, occorre continuare a correre per trovare terapie efficaci che possano aiutare a ridurre l’infezione, l’ospedalizzazione e quindi la contagiosità del virus: “Le terapie antivirali sono quelle che possono avere un impatto sociale più rilevante – ha spiegato Alberto Enrico Maraolo, infettivologo e dirigente medico dell’Ospedale Codugno di Napoli – rispetto alle altre perché diminuiscono il tempo delle ospedalizzazioni e il cosiddetto shedding virale, la contagiosità”. Al momento l’unico antivirale approvato per curare il Covid-19 anche in casa nostra è il Remdesivir, già usato contro il virus Ebola. Questo antivirale è tanto subdolo quanto il virus che punta e distruggere, per questo funziona. Molti virus, come il Covid-19, codificano le loro informazioni genetiche utilizzando un genoma a RNA. Mi sono fatta spiegare dal dottor Maraolo come agisce il Remdesivir.

L’RNA (o acido ribonucleico) è una molecola che regola l’espressione e la decodificazione dei geni. È assemblato come una catena di nucleotidi, brutto nome per indicare le basi azotate, gli elementi di queste catene, senza le quali si spezzano o terminano e le molecole non si possono più replicare. Un vero peccato. Oppure un miracolo nel caso in cui a interrompersi siano le molecole RNA del virus. “Il Remdesivir infatti agisce come una base azotata – chiarisce Maraolo –  ma non lo è veramente. Viene inglobato dalla molecola di RNA che pensa sia un vero nucleotide e invece, come un cavallo di troia, il Remdesivir si inserisce in questa catena e, non essendo una vera base azotata, impedisce la replicazione naturale del virus”.

Ma la lotta non finisce qui. Il Covid-19 è l’infame tra gli infami, perché mentre la maggior parte dei virus a RNA non ha meccanismi che consentono di intercettare basi azotate anomale, lui invece ha questo optional, una sorta di correttore di bozze interno che intercetta i nucleotidi difettosi e li elimina prima che facciano danni. “Ma il Remdesivir riesce a camuffarsi – rassicura l’infettivologo – perché dopo di lui continua a far esprimere le altre basi azotate vere, così il correttore di bozze non si accorge subito dell’anomalia, la catena non è interrotta, pensa che vada tutto bene e in realtà tutto si ferma, la replicazione non è più possibile perché la base azotata finta del Remdesivir blocca il processo di replicazione”. Il virus così finisce il suo viaggio.

Descritto così il processo sembra quasi divertente. “In realtà questo farmaco al momento ha mostrato risultati promettenti solo nei soggetti gravi (con polmoniti e sottoposti a ossigenazione) – sottolinea Maraolo – mentre nei pazienti con sintomi lievi non ha dimostrato un’efficacia statisticamente rilevante. Inoltre, questo farmaco può essere somministrato solo per via endovenosa, per dieci giorni circa. L’ideale sarebbe arrivare a una terapia utile a rallentare, se non fermare, la progressione del virus anche nei soggetti con sintomi lievi, in questo modo si bloccherebbe la contagiosità prima di arrivare a un peggioramento dei sintomi e il soggetto, dopo aver assunto il farmaco, potrebbe uscire di casa in breve tempo, senza sottostare a lunghe quarantene”.

Nel mondo si stanno studiando anche cortisonici come il desametasone o immunomodulanti come il Tocilizumab, ma servono ulteriori dati per dimostrare l’efficacia di queste terapie.

Mentre i paesi sgomitano per trovare il vaccino, ci auguriamo che lavorino altrettanto alacremente per trovare cure efficaci e sicure, su cui poter contare indipendentemente dai vaccini che possono aiutare ma, come abbiamo visto, nel caso del coronavirus possono avere un’efficacia limitata.

L’autunno è alle porte, i focolai aumentano in tutto il mondo e anche nel nostro paese. Al momento è tutto sotto controllo ma con l’abbassamento delle temperature la situazione potrebbe peggiorare.

 

[1] https://www-bbc-com.cdn.ampproject.org/c/s/www.bbc.com/news/amp/health-53426367

[2] https://1daysooner.org/

[3] https://www.nature.com/articles/s41591-020-0965-6

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Preprint in ambito scientifico: la “fonte” giornalistica del momento, su cui fare molta attenzione

Secondo uno studio che sarà pubblicato a breve…secondo una ricerca svolta dall’Università degli Studi di… e in via di pubblicazione…Quante volte abbiamo letto articoli iniziare con questo attacco per spiegare i nuovi risultati di ricerche scientifiche? In questi mesi non si legge altro.

“Secondo uno studio” è diventato l’attacco giornalistico del 2020.

Ma se ha senso (con le dovute precauzioni e attenzioni) raccontare i risultati di studi pubblicati su riviste scientifiche, ha meno senso pubblicare qualsiasi documento scientifico che non sia stato sottoposto a peer review, quella sacrosanta revisione fra pari che, in ambito accademico permette, attraverso attente analisi di metodo e di merito, di pubblicare uno studio sulle riviste scientifiche più prestigiose.

I manoscritti non ancora pubblicati su riviste di settore si chiamano preprint, e hanno una tradizione scientifica tutta particolare, fondata sulla condivisione dei risultati di uno studio tra ricercatori, prima della sottomissione del documento a una rivista: una sorta di richiesta di opinioni, di volontà di tastare il terreno e prendere le misure prima del grande passo, vale a dire la richiesta di revisione ufficiale per essere pubblicati su una rivista prestigiosa.

In questi tre mesi in cui un coronavirus sconosciuto ha cambiato la storia dell’umanità e in cui la comunità scientifica sta lavorando probabilmente come mai prima d’ora, sono apparsi studi e pubblicazioni scientifiche praticamente ogni giorno. Pubblicati o in versione preprint, senza che il pubblico avesse ben chiara la differenza, perché la differenza molte volte non era spiegata. E il pubblico, avido di notizie, non aspetta altro che leggere nuovi dati, analisi, nuovi scenari che spieghino in via definitiva contro cosa stiamo lottando.

Noi giornalisti abbiamo un compito supremo e indispensabile: saper selezionare le fonti per comunicare le informazioni essenziali ai cittadini

Allo stesso tempo, dobbiamo essere in grado di arginare quella “infodemia” di cui ha parlato l‘Organizzazione Mondiale della Sanità fin dal principio di questa pandemia, ma che sta ancora dilagando e gli argini non sembrano sufficientemente forti.

Come si possono quindi costruire argini forti? Selezionando le fonti e le notizie da pubblicare, perché tutto può essere interessante, è vero, ma in un momento in cui l’utente medio riceve più informazioni di quelle che riesce a processare, come in questo periodo, è meglio selezionare le notizie che siano davvero utili e che possono portare un valore aggiunto a quanto si sa fino a questo momento.

Il successo dei preprint

Fino a circa 10-15 anni fa, le università e gli enti di ricerca sottoscrivevano abbonamenti cartacei per le riviste scientifiche, successivamente sostituiti da pacchetti online only. Il concetto di preprint, ovvero di manoscritto non sottoposto a revisione e condiviso a titolo gratuito su un archivio online, risale al 1991 con l’introduzione del repository di manoscritti per la fisica arXiv. Il preprint si riferiva quindi a un documento che non era stato ancora sottoposto a peer review e non era stato quindi pubblicato su riviste scientifiche cartacee.  I manoscritti erano appunto condivisi con la comunità scientifica prima della stampa che – con qualche rara eccezione – oramai non avviene più. All’epoca questo tipo di servizio era confinato a comunità scientifiche di nicchia, con una diffusione dell’informazione molto limitata.

Molto spesso, questi studi sono pubblicati su siti dedicati in cui altri ricercatori possono lasciare commenti in una sorta di revisione tra pari della comunità. Le due principali piattaforme di preprint ad oggi sono MedRxiv, lanciato nel 2019 e BioRxiv lanciato nel 2013. Esistono anche archivi simili per altre aree disciplinari (ad esempio ChemRxiv, Psyarxiv, etc.)

Se i preprint non sono nuovi per la comunità scientifica, la loro popolarità è cresciuta ultimamente tra i giornalisti soprattutto in questa pandemia di COVID-19. Ma prima di pubblicarne il contenuto occorre prestare attenzione a diversi aspetti, prima fra tutti l’impatto che certi studi possono avere sull’opinione pubblica.

I preprint infatti nascono con l’intento di rendere visibili i lavori scientifici alla comunità scientifica, per avere feedback, commenti e anche critiche costruttive da altri scienziati e addetti ai lavori: questo è un lavoro prezioso tramite il quale l’autore o gli autori dello studio posso valutare la portata della loro ricerca, fare eventuali modifiche prima di sottoporla a peer review o, addirittura, in alcuni casi, decidere di non sottoporre il manoscritto a revisione scientifica. È una sorta di potente anticamera alla pubblicazione definitiva basata su un confronto tra scienziati. È nata per questo scopo e va intesa per questo scopo.

Se il documento è un preprint, questa informazione deve essere riportata bene in evidenza nella parte superiore del documento, accanto al titolo e agli autori. Come in questo esempio:

Questi documenti sono utili per la ricerca, ma prima di darli in pasto ai lettori che mediamente non conoscono (a meno che lo si spieghi correttamente) la differenza tra un manoscritto e un vero e proprio articolo scientifico, bisogna pensarci bene.

Soprattutto su temi come il COVID-19. Perché di questo virus ad oggi si sa poco, ogni giorno alcune certezze acquisite possono trasformarsi in dubbi e un preprint su questi temi, proprio per l’insicurezza dell’argomento,  potrebbe essere interessante, ma non ottenere mai una pubblicazione, oppure potrebbe essere pubblicato con modifiche, o essere rigettato.

Bisogna saper leggere i dati e saper comprendere i risultati di uno studio di ricerca. Purtroppo, se non si ha un’adeguata preparazione, non è facile individuare difetti metodologici e affermazioni fuorvianti, elementi che potrebbero emergere dopo un’attenta revisione da altri ricercatori, passaggio chiave per poter vedere il lavoro pubblicato. In questo articolo del New York Times si spiega ancora meglio cosa stia accadendo.

Non solo preprint: fate attenzione a qualsiasi studio mai pubblicato

Ma oltre ai preprint occorre fare attenzione anche all’annuncio di studi realizzati da università o enti di ricerca, ma mai pubblicati su riviste scientifiche.

Poche settimane fa molti giornali hanno ripreso la notizia di uno studio secondo cui il virus in un ristorante con aria condizionata potrebbe circolare molto più facilmente. Lo studio era preliminare,  e sarà pubblicato a luglio, eppure molti giornali ne hanno parlato come se fosse uno studio già pubblicato. Scrivere che sarà pubblicato a luglio come giustificazione per parlarne ha poco senso se chi legge (il lettore medio) non ha ben chiara la differenza tra un preprint e uno studio pubblicato. Perché da qui a luglio le informazioni potrebbero cambiare e lo studio potrebbe essere modificato, aggiornato oppure ritirato.

Serve davvero pubblicare tutte queste informazioni che gettano solo dubbi, ipotesi e chiaroscuri su un tema, la pandemia, di cui si hanno poche certezze? È utile pubblicare qualsiasi notizia in merito, anche se preliminare, abbozzata, ipotetica e non supportata da forti evidenze scientifiche?


Alessandro Gallo

Ho provato a chiedere qualche consiglio a chi conosce questo settore, come Alessandro Gallo, direttore della casa editrice Springer Healthcare Italia, Alessandro Gallo:

I manoscritti pubblicati su MedRxiv (o BioRxiv) sono dei validi riferimenti bibliografici?

Un autore può inviare un manoscritto (preprint) a questi archivi prima di decidere di sottoporlo alla peer review di una rivista internazionale. Al preprint è assegnato d’ufficio un DOI (Digital Object Identifier), entro qualche giorno dalla sottomissione. Successivamente, il manoscritto può (o meno) essere inviato a una rivista ufficiale. All’autore possono essere richieste revisioni minime o sostanziali, per cui il testo ufficialmente approvato e pubblicato, successivamente, su una rivista internazionale potrebbe differire notevolmente. Il manoscritto originario resterà su MedRxiv. A questo proposito, consiglio la lettura approfondita delle FAQ pubblicate su MedRxiv https://www.medrxiv.org/about/FAQ  

Quali sono le principali criticità nel leggere un preprint?

In epoca COVID-19 c’è stata una vera e propria esplosione di contenuti caricati su questi repository (si parla di oltre 3000 contributi in pochi mesi, in particolare su MedRxiv). Nonostante un accesso immediato alla ricerca sia stato garantito anche da parte dei grandi editori per contenuti ufficialmente revisionati e pubblicati, il rischio di poter aver accesso a contenuti non validati è aumentato notevolmente, con diffusione quotidiana di bozze di manoscritti con diverse versioni che circolano in maniera incontrollata e che talvolta vengono utilizzati dalla stampa, anche specializzata, per campagne di comunicazione non sempre basate su evidenze fondate. A questo proposito è doveroso un approfondimento sui vantaggi e i limiti dei repository di preprint e suggeriamo un articolo pubblicato su Nature Preprints are good for science and good for the public https://www.nature.com/articles/d41586-018-06054-4

I contenuti caricati sui repository di preprint sono davvero senza filtri?

Recentemente MedRxiv ha cominciato ad applicare dei filtri nel caricamento dei manoscritti, per limitare la proliferazione di contenuti non reviewed dalla comunità scientifica. A questo proposito invitiamo a leggere un altro articolo recentemente pubblicato su Nature in riferimento a questi servizi Preprints: How swamped preprint servers are blocking bad coronavirus research https://www.nature.com/articles/d41586-020-01394-6

Anche a causa della notevole eco mediatica, i repository di preprint sono corsi ai ripari, implementando dei meccanismi di filtro (ad esempio non è più consentito caricare manoscritti relativi al COVID-19 basati unicamente su modelli computazionali). Sono inoltre stati messi a punto dei protocolli di verifica dei contenuti (controlli anti-plagio e dell’accuratezza dei contenuti realizzati dal personale interno). Successivamente, i manoscritti sono esaminati su base volontaria da accademici specializzati nel campo. Le verifiche sono più rapide su BioRxiv (2 giorni) rispetto a medRxiv (4-5 giorni), poiché i contenuti pubblicati su quest’ultimo repository possono avere un impatto più diretto sulla salute umana.

Inoltre, ci sono specifici controlli per evitare la diffusione incontrollata di informazioni non verificate (ad esempio: i vaccini causano l’autismo). Il rischio è, in ogni caso, che si prendano per buoni dei dati che non sono ancora stati sottoposti a revisione e che in futuro potrebbero essere messi in discussione.

Un articolo pubblicato su una rivista scientifica, sottoposto a peer review, è quindi una fonte ufficiale più affidabile?

Non necessariamente. Nonostante le numerose revisioni a cura di diversi esperti, interni o esterni, i board editoriali delle più importanti riviste scientifiche non sono esenti da errori, anche se non sono sempre direttamente responsabili di errate valutazioni. La responsabilità dei risultati pubblicati è, in ultima istanza, sempre in carico agli autori. Non sono rare le “retractions”, vale a dire i casi in cui gli studi sono ritirati dalle riviste scientifiche,  come il caso dell’articolo pubblicato su Nature qualche anno fa in cui si sosteneva che la tecnica di editing genetico CRISPR-Cas9 avrebbe potuto creare significativi danni collaterali al genoma (https://www.nature.com/articles/nmeth.4293#correction3). Su questo articolo specifico, sul portale “Retraction Watch” c’è un’analisi molto dettagliata della corrispondenza tra gli autori e la rivista, nonché sulle motivazioni che hanno portato al ritiro del manoscritto: https://retractionwatch.com/2018/03/30/nature-journal-retracts-controversial-crispr-paper-after-authors-admit-results-may-be-wrong/


Che tu sia un giornalista, un blogger, un divulgatore scientifico o un semplice appassionato di scienza e medicina che voglia condividere informazioni con il grande pubblico, prima di pubblicare i contenuti di un preprint, prendi in considerazione questi aspetti:

  • Non è stato sottoposto a una revisione approfondita a cura di esperti del settore prima della pubblicazione. Quindi non si sa se le metodologie usate e le analisi statistiche effettuate siano adeguate.

  • Anche nel caso in cui il manoscritto fosse successivamente pubblicato su una rivista scientifica e diventasse un articolo “accademico” a tutti gli effetti, è sempre opportuno effettuare una ricerca bibliografica approfondita, a margine, per verificare l’attendibilità della fonte, il numero di pubblicazioni a cura di quel gruppo di ricercatori sull’argomento affrontato, il numero e la qualità dei riferimenti bibliografici presenti sull’argomento in letteratura.

  • Se sei un giornalista o scrittore con una preparazione medica probabilmente sai cosa andare a cercare e sei in grado di capire se i metodi e le analisi effettuate sono forti e consistenti. Se non disponi di queste competenze, lascia stare il preprint o affidati a un esperto. E se ti sei affidato a un esperto, segnalalo nel pezzo: è corretto nei confronti dei lettori, nei confronti di chi ti ha aiutato e dà autorevolezza al tuo lavoro.

  • Anche se hai un background scientifico, potresti non avere le competenze necessarie per la lettura di dati statistici che sono quasi sempre al centro degli assunti pubblicati. Ci sono spesso errori grossolani nell’interpretazione di dati statistici anche elementari. Presta attenzione!

  • Consulta ricercatori del settore della pubblicazione che non sono stati coinvolti nella ricerca: questo vale per qualsiasi studio, ma vale ancora di più per i preprint perché non sono stati revisionati dalla comunità scientifica.

  • Monitora i progressi del preprint, perché potrebbe essere ritirato dagli stessi autori prima di essere sottoposto a revisione. Se questo succede e tu hai parlato del preprint, sarebbe corretto aggiornare il tuo articolo o segnalare comunque che lo studio è stato ritirato.

  • Il preprint, inoltre, non sarà mai cancellato dai repository: resterà sempre online con un DOI, anche nel caso in cui non fosse mai pubblicato su una rivista scientifica (vedi FAQ MedRxiv).

  • La versione finale pubblicata sulla rivista scientifica potrebbe differire anche in maniera sostanziale da quella iniziale. Controlla sempre quale versione stai utilizzando e se ci sono diverse “copie” in circolazione.

Fonti:

https://healthjournalism.org/blog/2020/04/beware-the-preprint-in-covering-coronavirus-research/

https://journalistsresource.org/tip-sheets/research/medical-research-preprints-coronavirus/

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Coronavirus e gravidanza: come si sta intervenendo per le madri che contraggono il virus?

Coronavirus e gravidanza: nella spasmodica corsa per curare i pazienti affetti da COVID-19, c’è una categoria di persone, le donne in gravidanza, e il personale che le assiste, che sta passando in secondo piano nella comunicazione generale.
Ma il virus non risparmia nessuno e attacca anche chi aspetta un bambino. La ricerca sta andando avanti interrottamente per aggiornare le poche informazioni finora disponibili e dare risposte alle numerose domande: il virus passa al feto? Madre positiva e bimbo devono essere separati? E  le/gli ostetriche/i  come possono proteggersi durante il parto? Abbiamo provato a dare una riposta a questi quesiti con  l’aiuto del dottor Enrico Finale, ostetrico, professore a contratto di Scienze infermieristiche ostetrico-ginecologiche presso l’Università del Piemonte Orientale

Le informazioni raccolte si basano sui dati disponibili e aggiornati al 20 marzo 2020

Sulla base delle informazioni disponibili, cosa sappiamo sulle donne che contraggono il coronavirus in gravidanza?

La ricerca in questo momento è in continua evoluzione e le ipotesi che si formulano possono cambiare velocemente.

Ad oggi non vi sono evidenze a supporto di una trasmissione verticale (cioè dalla madre al fe

Il dottor Enrico Finale

to) del virus SARS-CoV-2, il patogeno che causa la malattia COVID-19. Alcuni autori hanno analizzato il liquido amniotico e il sangue neonatale prelevato dal cordone al momento della nascita in donne che avevano sviluppato la sintomatologia clinica da COVID-19 in gravidanza, senza rilevarne la presenza. Anche l’analisi istopatologica della placenta di donne con infezione da nuovo coronavirus non ha evidenziato la presenza del virus nei tessuti placentari e nei neonati. Molte informazioni in nostro possesso si basano anche sui dati emersi da altre infezioni legate al coronavirus (SARS-CoV e MERS-CoV). In questo contesto sono stati riportati casi di aborto spontaneo, di parto prematuro o di basso peso alla nascita, che al momento sono in esame per le infezioni da SARS-CoV-2.

All’inizio di questa epidemia si diceva che le donne in gravidanza erano poco colpite e chi lo era aveva sintomi blandi, è ancora così?

Sulla base di dati su casi di coronavirus precedenti (SARS-CoV e MERS-CoV) e un piccolo numero di casi COVID-19, ma anche per l’influenza stagionale, si ritiene che le donne in gravidanza possano essere a maggior rischio rispetto alla popolazione generale per le infezioni respiratorie a causa dei cambiamenti che occorrono al loro corpo e al loro sistema immunitario, specialmente nel terzo trimestre di gravidanza.
Le donne in gravidanza non sembrano però avere maggiori probabilità di contrarre l’infezione rispetto alla popolazione generale. I dati raccolti sinora hanno evidenziato che le donne in gravidanza con infezione sospetta o confermata presentano gli stessi sintomi della popolazione generale. Non è possibile al momento collegare gli esiti avversi della gravidanza, ad esempio aborto, parto prematuro o basso peso neonatale direttamente alla COVID-19.

Coronavirus in gravidanza: una madre cosa deve fare?

Partirei da quello che una donna in gravidanza deve fare per evitare il contagio. Non avendo allo stato attuale strumenti come un vaccino per contrastare SARS-CoV-2, per le donne in gravidanza e le persone che le circondano è necessario far riferimento alle comuni norme igieniche di prevenzione primaria: lavarsi spesso e accuratamente le mani con acqua e sapone o con un gel a base alcolica, evitare contatti con persone malate o che presentino sintomi riconducibili ad affezioni respiratorie, mantenere la distanza di almeno un metro durante le inevitabili ed improcrastinabili interazioni sociali (visite specialistiche o di routine), praticare una scrupolosa igiene respiratoria (tossire e starnutire nella piega del gomito oppure in fazzoletto da smaltire subito dopo) e delle superfici.
Per le donne in gravidanza lavoratrici è bene richiamare le leggi che tutelano la maternità, valutando il caso di una astensione precauzionale dal lavoro o di un cambio di mansione con il proprio datore di lavoro. Le donne che hanno un sospetto o una diagnosi certa di infezione devono seguire scrupolosamente le indicazioni dello staff medico ed ostetrico che le prende in cura. Le indicazioni cliniche ed assistenziali, che dipendono esclusivamente dal quadro sintomatologico, possono andare dall’isolamento domiciliare al ricovero in ospedale.

Il mese di gravidanza in cui si contrae il virus può fare la differenza nella sintomatologia?

Sono attualmente in corso ricerche per meglio comprendere l’impatto dell’infezione COVID-19 su donne in gravidanza e nello specifico nei vari trimestri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità monitora da vicino la produzione scientifica e aggiorna costantemente le informazioni. Ad oggi però, con le informazioni in nostro possesso, non è possibile rispondere dettagliatamente a questa domanda.

Quanti neonati sono nati positivi da madre positiva?

I dati relativi ai contagi sono in continua evoluzione. In letteratura sono stati riportati casi di neonati affetti da COVID-19, ma al momento non vi è evidenza di una trasmissione verticale o di una infezione intrapartum (durante il parto). Secondo la Società Italiana di Neonatologia (SIN) allo stato attuale un’eventuale infezione neonatale da SARS-CoV-2 potrebbe essere il risultato di una trasmissione acquisita per via respiratoria dalla madre nel post partum piuttosto che per via transplacentare.

Come viene gestita una donna in gravidanza positiva al COID-19 in ospedale?

 I reparti di ostetricia italiani stanno affrontando una riorganizzazione per garantire percorsi dedicati alle donne gravide o puerpere affette da COVID-19. Le attuali indicazioni nazionali e internazionali prevedono l’isolamento in camere singole e percorsi fisici e logistici dedicati per il travaglio e il parto. La programmazione assistenziale dipenderà molto da come evolveranno i sintomi nel caso specifico.

Durante il parto, quali precauzioni sono prese dal personale sanitario?

Il rispetto della fisiologia della nascita e la protezione individuale dei singoli operatori presenti al parto sono elementi entrambi importanti e che vanno tutelati. A questo scopo il personale dedicato all’assistenza di una gravida ricoverata per travaglio e parto con sospetto o conferma di COVID-19 applica le indicazioni nazionali ed internazionali mediante l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuali idonei e specifici.

Come è trattato il bambino nato da madre con coronavirus?

Secondo la Società Italiana di Neonatologia, sulla base dei pochi dati disponibili in letteratura, l’infezione postnatale da SARS-CoV-2 sembrerebbe non essere grave o risultare addirittura asintomatica rispetto a quanto avviene nelle età successive. Il tema non trova comunque univoco consenso internazionale e non è stata dimostra la presenza del virus nel latte materno anche a due, cinque e sette dalla nascita. Secondo la Società di Pediatria cinese, per precauzione i bambini andrebbero separati dalla madre sospetta o positiva per COVID-19 e nutriti con latte in formula.
Le indicazioni non prendono in considerazione i rischi e i benefici di questa separazione. Per il Centers for Disease Control and prevention (CDC) nei casi di infezione sospetta o confermata per SARS-CoV-2 si dovrebbe prendere in considerazione come prima scelta l’opzione di una gestione del bambino separata da quella della madre. Le implicazioni sul non avvio, la prosecuzione o l’interruzione dell’allattamento al seno andrebbero discussi e condivisi con la famiglia.
Nei casi in cui non ci fosse la separazione dei bambini dalle madri, occorre garantire tutte le procedure atte ad evitare la trasmissione aerea dell’infezione come l’uso della mascherina durante le poppate e l’igiene delle mani. Qualora il bambino resti in ospedale insieme alla madre in regime di rooming-in, si provvederà a farlo dormire nella propria culletta, a distanza di almeno 2 metri dalla mamma.
L’UNICEF e l’OMS, invece, non prendono in considerazione la separazione di mamma e bambini/e e consigliano di applicare le indicazioni di igiene delle mani e respiratoria.
In Italia, secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), se le condizioni cliniche lo consentono madre e bambino non andrebbero separati e l’avvio e la prosecuzione dell’allattamento dovrebbe essere garantita direttamente al seno, utilizzando le precauzioni contestuali di igiene delle mani e respiratoria. Invece, nei casi in cui madre e bambini/e debbano essere temporaneamente separati, bisognerebbe aiutare le madri a mantenere la produzione di latte attraverso la spremitura manuale o meccanica del seno, da effettuare utilizzando le stesse precauzioni igieniche. La compatibilità dell’allattamento al seno con farmaci eventualmente somministrati alla donna con COVID-19 deve essere valutata caso per caso.

Che consigli si sente di dare ai suoi colleghi?

Tutte le comunità scientifiche e professionali nazionali e internazionali stanno producendo uno sforzo straordinario, sia per l’assistenza diretta sia per la ricerca scientifica, ma il momento storico che stiamo vivendo è complesso e in continua evoluzione e quindi i consigli dati oggi potrebbero non valere domani. Quest’anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità celebra il ruolo sanitario e sociale delle Ostetriche/ci e degli Infermieri, mi sento quindi di rivolgere un plauso e un grazie sincero a tutte le colleghe/i e agli infermieri che ogni giorno portano avanti con professionalità,  dedizione e sacrificio il loro lavoro, soprattutto in un momento di estrema emergenza sanitaria come questo.

Questa intervista è stata pubblicata anche sul magazine online Medici Oggi, rivista fondata da Springer  con cui collaboro.

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