Medicina Narrativa

Medicina narrativa: la nuova frontiera della cura

Ascoltare le storie dei pazienti, accogliere le loro emozioni e poi trascriverle, in modo che ne resti traccia. E che questa testimonianza diventi parte integrante del percorso di cura.

Ludovica Brofferio

Ludovica Brofferio

Questa è la Medicina Narrativa in cui il professionista sanitario mette al centro della diagnosi e della terapia il vissuto del paziente e, al tempo stesso, integra questa storia con le sensazioni, i dubbi e le emozioni che ha provato lui stesso nel prendersi cura del prossimo.
Ludovica Brofferio, infermiera professionista presso l’Oncologia Ginecologica e Breast Unit dell’Ospedale Sant’Anna di Torino, ha scritto il libro Il tumore della mammella – storie narrate ed evidenze cliniche, edito da Springer Healthcare Italia.
Nel testo si immedesima in Minerva, la paziente protagonista, fornendo un esempio di cosa sia la Medicina Narrativa, attraverso il racconto della protagonista che deve affrontare il cancro al seno.In questa intervista, Ludovica Brofferio ci spiega che cosa sia la Medicina Narrativa e quale può essere il suo potenziale nella cura delle persone.

La Medicina Narrativa può essere la via per un nuovo rapporto tra medico e paziente. Ma in cosa consiste esattamente?

La Medicina Narrativa è stata definita dalla sua teorica Rita Charon nel libro Narrative Medicine, Honoring the stories of illness come la medicina praticata con competenze narrative per riconoscere, assorbire, interpretare ed essere (com)mossi dalle storie di malattia. 
Quando le persone vogliono comprendere o descrivere una particolare situazione raccontano una storia. Quando si cerca di capire il motivo per cui alcuni eventi accadono, li si mette in ordine temporale, stabilendo quale sia stato l’inizio, lo svolgimento, la fine, costruendo una trama intorno agli accadimenti che, altrimenti, rimarrebbero caotici e privi di senso.
La storia di malattia non può essere solo un’anamnesi, intesa come raccolta di eventi e dati, seguita poi da referti e diagnosi. Occorre un passo in avanti, una riconciliazione.
La storia di malattia deve lasciare spazio ai pensieri del paziente, ai suoi sentimenti, alla sua visione della malattia e della vita stessa, al suo modo di comunicare la sofferenza.
La rivoluzione della Medicina praticata con competenze narrative sta in questo: ricongiungere due storie di malattia che all’inizio della relazione di cura sono lontane (la malattia vissuta dal paziente e l’anamnesi fatta dal medico).

La Medicina Narrativa come potrebbe cambiare, in concreto, il percorso clinico del paziente e l’approccio clinico del medico?

La Medicina Narrativa non è solo teoria. Si tratta di interpretare la storia di malattia del paziente secondo la storia della sua vita. Una volta che abbiamo ascoltato il paziente ed il suo punto di vista dobbiamo sempre fermarci e chiedergli conferma di quanto ci ha detto, per valutare se abbiamo compreso il messaggio.
L’interpretazione evolve sempre in azione. Il professionista sanitario deve sempre chiedersi cosa può fare per il paziente, cosa il paziente abbia voluto davvero comunicare, quali siano i suoi obbiettivi.

Un esercizio di ascolto costante

La Medicina Narrativa è un esercizio di attenzione e di ascolto. I nostri colloqui con i pazienti peccano incredibilmente in questo senso. Corriamo, abbiamo fretta e il paziente non sa come trattenerci e come comunicare con noi in quel poco tempo che gli dedichiamo.
Anche se il tempo è limitato, lo sforzo è di dedicarlo al paziente. Senza altre distrazioni.
Provare a ricordare (anche prendendo appunti) le parole esatte che il paziente ha utilizzato, le metafore, le immagini evocative di cui si è servito per spiegarci come si sente.

Trasformare la pratica clinica

L’esercizio alla narrazione è utile anche per il professionista stesso perché lo aiuta a riflettere sulla consapevolezza della propria finitezza. Sul fatto che la vita è intrinsecamente legata alla malattia e che le persone reagiscono davanti alla malattia in modi che non sempre corrispondono al proprio modo di vedere.
La medicina narrativa apre porte, esattamente come la malattia fa con la vita, al senso più autentico della nostra professione: l’incontro con l’altro.
Le competenze narrative possono fortificare e trasformare la nostra pratica clinica e renderla più efficace perché il paziente si sentirà ascoltato, compreso e riconosciuto come persona e non come diagnosi.
Come scrive il sociologo Frank la narrazione “non è un atto terapeutico, ma è dare dignità a quella voce ed onorarla”. In questo modo il sanitario che si prende cura del paziente non si pone come osservatore esterno, ma come partecipante attivo. E, allo stesso modo, al paziente si restituisce un ruolo da protagonista.
Senza una comprensione autentica dell’individualità del malato, la medicina potrà raggiungere obiettivi di tipo tecnico, ma le mancherà sempre qualcosa: personalizzazione, empatia, umanizzazione.

Come è utilizzata la medicina narrativa in altri paesi? 

La Medicina Narrativa è utilizzata in tutto il mondo in svariati ambiti. In particolar modo, la letteratura scientifica offre esempi di esperienze di Medicina Narrativa nei contesti in cui l’affiliazione professionista sanitario-paziente riveste un’importanza fondamentale:

  • Scrittura autobiografica, sotto forma di diario, per i pazienti in cure palliative sugli aspetti felici della loro vita, in modo da ridurre l’ansia e l’angoscia e aumentare il senso di dignità;
  • L’impiego dello storytelling  nel miglioramento del dolore e del senso di generale benessere;
  • Raccolta di esperienze scritte in forma di diario o epistolare dei pazienti e dei caregiver afferenti ad un’unità di terapia intensiva e messa a disposizione del personale sanitario:
  • Interviste narrative rivolte alla riduzione dei fattori di rischio, come il fumo, nelle patologie respiratorie e cardiovascolari; in ambiti specifici come la gravidanza o interviste autobiografiche per coppie che si rivolgono alla procreazione assistita, per ridurre il senso di stress e incertezza verso il futuro;
  • Il racconto della propria storia attraverso il teatro nei pazienti affetti da malattia mentale;
  • Gruppi di storytelling rivolti a bambini e adolescenti diabetici per migliorare la consapevolezza sulla loro gestione autonoma della malattia.

In Italia ci sono esperienze virtuose da prendere come esempio?

La formazione alla Medicina Narrativa si svolge soprattutto in ambito infermieristico che, per sua natura, gode di un rapporto privilegiato con il paziente in termini di vicinanza e di confidenza.
Le Medical Humanities sono una risorsa di formazione per gli studenti italiani: ci si esercita all’empatia attraverso le storie vere, autobiografiche, o di finzione attingendo alla letteratura, al cinema e alle arti figurative. Esse stimolano il futuro professionista alla presa di consapevolezza della dimensione antropologica e sociale della malattia e della cura.
Nel 2015 è stato prodotto un documento di Consenso sulla Medicina Narrativa nell’ambito delle malattie rare e cronico-degenerative in cui la narrazione è stata considerata un elemento costitutivo del percorso di cura: dalla diagnosi alla terapia, dalla riabilitazione ai trattamenti palliativi.

Medicina Narrativa ed Evidence Based Medicine

La Medicina Narrativa non si sostituisce all’Evidence Based Medicine, ma la integra e la arricchisce. La narrazione deve sempre essere finalizzata ad un risvolto operativo nelle cure: aderenza al trattamento, efficienza dell’équipe medica, consapevolezza del proprio posto e del ruolo che le emozioni giocano all’interno delle relazioni di cura.
Rita Charon ha coniato il termine Parallel Chart per identificare la pratica di scrivere una cartella clinica “parallela” a quella ufficiale, nel quale il medico/infermiere scrive l’altra storia del paziente, quella parallela appunto, in cui:

  • Lo stile è narrativo e non tecnico;
  • Emergono riflessioni su cosa quel paziente o quella determinata situazione ha insegnato al professionista. In altre parole, in che modo lo ha arricchito;
  • Si possono far trapelare le proprie emozioni per l’inevitabilità della morte o per il coraggio che la relazione con il paziente ha suscitato;
  • Scopo principale è scavare più a fondo nell’esperienza di malattia dei pazienti e l’esperienza di cura del professionista sanitario;
  • Condividere le storie con i colleghi per percepire altri punti di vista, perché non esiste un unico e giusto modo di leggerli.

Nel 2018 è stato pubblicato un interessante studio italiano sull’utilizzo delle Parallel Chart in pneumologia e le cui conclusioni hanno suggerito di inserire questi strumenti di medicina narrativa nei protocolli ufficiali di cura della broncopneumopatia cronica ostruttiva.

Nel suo libro lei racconta la storia di Minerva, affetta dal tumore al seno, attraverso il punto di vista della protagonista. Cosa le ha lasciato questa esperienza?

Minerva è una donna che racchiude in sé tutte le donne che ho incontrato fino ad ora in corsia. Ho scritto quindi di donne vere, reazioni vere alla malattia, dialoghi veri.
La scrittura mi ha concesso una seconda possibilità: se per la vita reale non ci sono copioni da seguire, tutto si svolge lì davanti a te e puoi solo improvvisare, cercando di fare bene da subito, la scrittura invece concede la calma per ritornare sull’episodio, sviscerarlo, dispiegarlo. La scrittura permette di trarre riflessioni sul nostro modo di prendersi cura e sul modo del paziente di vivere la malattia.
Scrivere questo libro è stato intenso. L’esperienza di scrivere su Minerva ed in Minerva è stata intimamente legata all’esperienza di scrivere su di me, sul mio essere infermiera. È stata una pratica riflessiva prima ancora di essere narrativa.
È stata un’occasione per meditare sulle relazioni che costruiamo con i nostri pazienti.
Meditare su quanto i nostri atteggiamenti risuonino nei nostri pazienti e quanto quelli dei nostri pazienti risuonino in noi. Meditare su come e in che misura il percorso di cura migliora quando le nostre storie si incontrano.

“Nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è spesso come un pentolino di latta su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle

Madame Bovary

 

Il tumore della mammella: storie narrate ed evidenze cliniche è un testo edito da Springer Healthcare Italia, parte del Gruppo Springer Nature. Consente di acquisire anche 15 crediti ECM.

Per maggiori informazioni visitate questo sito.

 

 

 

 

Questo articolo è uscito anche su “Medici Oggi”, rivista di Springer Healthcare Italia con cui collaboro da diverso tempo.

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Artrosi e artrite: l’attività fisica può fare la differenza?

Artrosi e artrite sono due patologie distinte che riguardano le nostre articolazioni e che possono portare dolore e difficoltà nei movimenti. l’attività fisica può aiutare a potenziare le articolazioni, a diminuire la perdita di osso e può essere utile nel controllare il dolore. Non si può però improvvisare, ma occorre effettuare esercizi mirati di “ginnastica adattata”. Ne abbiamo parlato con Carmelo Giuffrida, Dottore in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate.

Il Dottor Carmelo Giuffrida

Artrosi e artrite, quali sono le differenze?

Artrosi e artrite  sono malattie reumatiche  molto comuni  comportano limitazioni dei movimenti e dolore, a volte in via temporanea, altre volte in modo permanente. Interessano uomini e donne di tutte le età, anche se sono più frequenti nelle persone anziane.

La forma più frequente è l’osteoartrosi, una patologia infiammatoria cronica e progressiva che interessa tipicamente le articolazioni come ginocchio, anca, caviglia, rachide, spalla e le piccole articolazioni delle mani. E’ caratterizzata da degenerazione della cartilagine, dolore articolare, e può peggiorare la qualità della vita.

L’artrite reumatoide è una malattia cronica a carattere erosivo che genera la distruzione della cartilagine articolare e interessa soprattutto le articolazioni mobili. Colpisce le donne tre volte di più rispetto agli uomini ed esordisce tra i 40 e i 60 anni.

I sintomi principali sono:

  • dolore generale

  • rigidità e dolore articolare

  • debolezza

  • stanchezza

  • rossore della cute

  • tumefazione

  • anemia

A questi segnali si possono associare anche positività del fattore reumatoide ( un indicatore di laboratorio, utile per determinare la presenza di un’ infiammazione  o di un’alterazione nel sistema immunitario) e degli anticorpi anti-citrullina per capire se si ha l’artrite reumatoide o altri tipi di artrite. Ci sono poi diversi esami utili per capire di che tipo di malattia reumatica soffre il soggetto.

Artrosi e artrite si possono prevenire con l’attività fisica?

Negli ultimi 30 anni, sia la ricerche scientifiche sia le conoscenze acquisite sul campo hanno attribuito grande valore  all’esercizio fisico usato come trattamento  di parecchie malattie croniche oltre alle patologie dell’apparato locomotore. L’attività fisica adattata è compresa tra i “farmaci equivalenti”, e ha assunto il ruolo di “farmaco” nei disturbi correlati a parecchie sindromi metaboliche (insulino-resistenza, diabete di tipo 2, diabete di tipo 1, ipertensione, obesità), malattie cardiache e polmonari (asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva, cardiopatia ischemica, cronica insufficienza cardiaca, claudicatio intermittente), malattie muscolari, ossee e articolari (artrosi, artrite reumatoide, osteoporosi, fibromialgia, sindrome da stanchezza cronica), cancro, depressione, solo per citarne alcuni.

L’esercizio fisico regolare e appropriatamente somministrato potenzia le capacità articolari, diminuisce la perdita di osso e può essere utile nel controllo del dolore. Nei soggetti che hanno artrosi e sono in sovrappeso, l’attività motoria aiuta a dimagrire e quindi a diminuire il peso sulle articolazioni. Per chi soffre di artrite invece sono importanti anche i momenti di riposo, per cui in questo caso è giusto affidarsi a specialisti dell’attività fisica adattata che sappiano bilanciare movimento e riposo nel modo giusto.

Cosa intende per attività fisica adattata (A.F.A)?

Se sostituiamo la parola “adattata” con “modificata” si intende già subito di cosa stiamo parlando: si tratta di una valida modalità didattica che adatta (cioè, modifica) il programma, i compiti e/o l’ambiente, in modo che TUTTI i soggetti possono partecipare pienamente all’attività motoria.

In pratica, in questo tipo di attività, si dà un’enfasi particolare agli interessi e alle capacità degli individui caratterizzati da condizioni fisiche svantaggiate, quali diversamente abili, malati o anziani. E’ quindi un tipo di attività dedicata a persone affette da malattie, menomazioni, disabilità o deficit tali da limitare le capacità di tali individui di praticare le attività fisiche loro congeniali.

E’ importante però ribadire che l‘attività fisica ha come obbiettivo mantenere in salute il paziente, non curare la malattia. 

 L’Attività Fisica Adattata (A.F.A.)  è stata introdotta per la prima volta nel 1973 dall’IFAPA – Federazione Internazionale Attività Fisica Adattata  ed è strettamente legata alla figura professionale del Laureato in Scienze Motorie Specializzato in Scienze e Tecniche delle Attività Motorie Preventive e Adattate. 

L’A.F.A. quanto può aiutare chi soffre di artrite o artrosi?

L’esercizio fisico svolto regolarmente appropriatamente mira a evitare i sovraccarichi articolari e l’improprio uso delle strutture articolari. L’obbiettivo principale è potenziare le articolazioni: il movimento diminuisce la perdita di sostanza ossea e può essere utile nel controllo del dolore. 

Nei pazienti con artrosi in sovrappeso, l’attività fisica può aiutare a perdere peso  e quindi a fare diminuire progressivamente il sovraccarico e l’usura delle articolazioni.

Nei pazienti con artrite l’attività motoria riveste un ruolo di primaria importanza durante gli attacchi acuti (ma, in questo caso, la competenza operativa è del Dottore in Fisioterapia!).

La totale assenza di esercizio fisico può far aumentare la debolezza muscolare e il dolore articolare. occorre quindi bilanciare le attività di movimento a quelle di riposo. Gli effetti dell’attività fisica sull’organismo umano condizionano la’adattamento fisico del corpo nel corso del tempo. più ci si allena, ,più ci si adatta allo sforzo. Questo, a lungo termine, porta a un importante aumento del massimo consumo di ossigeno. Ciò avviene a qualsiasi età pur variando quantitativamente in funzione delle caratteristiche genetiche soggettive, della situazione di sedentarietà iniziale e del tipo di allenamento programmato.

Uno degli effetti principali dell’allenamento aerobico è la capillarizzazione muscolare. Con l’attività motoria si può incrementare il flusso sanguigno muscolare da 50 a 100 volte i valori riscontrabili a riposo e, in ultima analisi, si possono migliorare i movimenti ed aumentare la forza dei soggetti che vi si sottopongono. Nello specifico l’attività fisica regolare:

  • Riduce o normalizza la disfunzione endoteliale (l’endotelio è il rivestimento cellulare interno dei vasi sanguigni), responsabile dei fenomeni di aterosclerosi.

  • Migliora il movimento delle articolazioni

  • Migliora la coordinazione neuro-muscolare. Ciò va a maggior vantaggio dell’anziano in presenza di patologie disabilitanti.

Per chi volesse intraprendere questo percorso di Attività Fisica Adattata, quali sono i passi da compiere?

Le persone con artrosi o artrite che desiderano intensificare l’attività fisica devono prima di tutto parlare con il proprio medico e con lo specialista, in questo caso i dottore in scienze e tecniche delle attività motorie preventive e adattate. Bisogna quindi tenere conto di una valutazione della gravità della patologia articolare e dell’eventuale presenza di malattie concomitanti.

Gli aspetti che devono essere chiariti con chi vuole fare esercizio fisico sono essenzialmente questi:

  • Il ruolo che riveste l’attività fisica all’interno del percorso speciale redatto per il soggetto;

  • La sicurezza nella pratica dell’esercizio fisico: il soggetto deve essere in grado di riconoscere i possibili segni che gli indicano quando è necessario interrompere l’allenamento;

  • La gestione delle aspettative derivanti dall’attività fisica adattata: benefici possibili e limiti;

  • L’importanza di scegliere l’esercizio sulla base delle proprie preferenze e dello stile di vita;

  • la consapevolezza che “attività fisica” non è necessariamente sinonimo di “esercizio ad alto livello o vigoroso”. L’attività motoria è cosa ben diversa dallo “sport” ma include un ampio raggio di occupazioni come il giardinaggio, una lunga passeggiata, salire le scale, ….

Quello che mi sento di dire è che il rapporto con l’attività fisica deve essere incoraggiato. Fare attività fisica fa bene anche per chi soffre di artrosi o di artrite. Ovviamente l’attività andrà svolta sotto stretta osservazione, con controlli mirati su intensità e frequenza e si dovrà modulare secondo le eventuali manifestazioni di dolore dei soggetti. Ci vogliono quindi informazioni corrette, perché svolgere un’attività fisica adattata non può che far bene a chi soffre di artrosi o artrite.

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Disfunzione erettile: un disturbo dalla causa ancora incerta

La disfunzione erettile colpisce il 13% degli uomini italiani, insorge dopo i 45 anni, ma la causa scatenante ad oggi non è nota. Esistono fattori di rischio, come stili di vista scorretti o patologie croniche, che possono facilitarne l’insorgenza. Ma in Italia la Disfunzione Erettile rimane ancora un tabù, qualcosa di cui gli uomini continuano a vergognarsi. I farmaci possono aiutare e si sta studiando un gel speciale dagli esiti promettenti. Ne parliamo con il dottor Andrea Boni, Urologo e Andrologo presso la S.C. Inter-aziendale di Clinica Urologica (Perugia-Terni).

La disfunzione da cosa dipende e chi colpisce?

La definizione di disfunzione erettile (DE) è basata sull’ autopercezione del paziente, più che su dati numerici standardizzabili. Potremmo identificarla come una persistente o ricorrente incapacità di raggiungere o mantenere un’erezione sufficiente ad ottenere una prestazione sessuale soddisfacente.

Nel linguaggio comune, la DE spesso è definita come impotenza, ma credo sia un termine usato impropriamente e che può generare frustrazione. È una disfunzione che ha luogo nelle varie fasi della risposta sessuale: desiderio, eccitamento, orgasmo e risoluzione. In queste fasi entrano in ruolo fattori psicogeni, oppure fattori organici come il sistema endocrino, quello nervoso, la muscolatura dei corpi cavernosi e del pavimento pelvico. Per questo la DE può essere di diverso tipo: organica, psicogena e mista.

E questo per rispondere a come si manifesta. Capire le cause, invece, è un po’ più complicato.
Iniziamo col dire che la DE colpisce dopo i 45 anni e che in più dell’80% dei casi è di natura organica ed imputabile a più fattori coesistenti nello stesso soggetto. Alla base della DE vi è sicuramente la disfunzione vascolare endoteliale. Vanno poi analizzati i fattori di rischio che predispongono maggiormente a questa disfunzione e che distinguiamo in:

  • Modificabili: fumo, obesità, sedentarietà, farmaci interferenti con la funzione erettile

  • Non modificabili: età, diabete mellito, ipertensione arteriosa, cardiopatia ischemica, dislipidemia (un livello elevato di lipidi come colesterolo e trigliceridi), patologie neurologiche.

A questi si aggiungono altri fattori di rischio quali ipogonadismo, depressione e LUTS (Lower Urinary Tract Symptoms –un insieme di sintomi del basso tratto urinario).
Il diabete mellito, dopo l’età, è il fattore di rischio più comune per la DE e agisce con un meccanismo multifattoriale; negli ipertesi, la prevalenza di DE raggiunge anche il 68% mentre in chi fuma il rischio di sviluppare DE aumenta da 1,5 a 2 volte. La stretta correlazione tra il deficit erettile e le patologie cardiovascolari, fa considerare questa problematica come una sorta di marker spia per futuri potenziali eventi cardiovascolari.

Gli effetti possono incidere anche sulla sfera psicologica?

La sessualità, come ho spiegato in questo articolo, è alla base del benessere fisico, psicologico e sociale della persona. Quello a cui assistiamo, da una parte, è il rifiuto da parte delle persone di “medicalizzare” le problematiche sessuali e, dall’altra, a una bassa considerazione da parte dell’ambiente scientifico di questa  condizione. Quando gli uomini, a prescindere dall’età, sono colpiti dalla DE o da altri disturbi che pregiudicano l’attività sessuale, tendono a chiudersi in sé stessi e non hanno il coraggio di rivolgere domande e chiedere consigli ad uno specialista.

Se le donne, già dall’adolescenza sono abituate ad avere una figura di riferimento nel proprio ginecologo, gli uomini si rivolgono all’ urologo solo in età adulta quando le disfunzioni risultano stabilizzate, più difficili da trattare, ed impossibili da prevenire. 
Per un uomo, desiderare la propria partner ma non raggiungere una potenza soddisfacente, causa uno stato di ansia, con un’attenzione eccessiva sul proprio organo genitale e, di conseguenza, sulla prestazione in generale. Ciò interferisce con il coinvolgimento sessuale e con la normale risposta fisiologica, divenendo essa stessa da conseguenza a fonte del problema temuto. L’uomo, quindi, non si focalizza sulle proprie sensazioni e sul proprio piacere, ma sulla dinamica dell’atto stesso (movimenti del proprio corpo, turgore del pene) e principalmente sul raggiungimento della gratificazione del partner.

La fase precedente il rapporto sessuale è quindi spesso vissuta con uno stato ansioso di allerta ma una tale focalizzazione instaura il circolo vizioso della cosiddetta ansia da prestazione, che porta a peggiorare la situazione. Per la DE, quindi, occorre un approccio multidisciplinare, che prenda in considerazione anche gli aspetti psicologici della problematica disfunzionale andrologica. Il sistema di ricompensa cerebrale, infatti, è una struttura funzionale complessa dipendente da quei centri cerebrali implicati nel comportamento emozionale.

A volte può essere presente una vera disregolazione di impulsi e comportamenti sessuali che causano marcato stress e disfunzione nelle aree personale, familiare, sociale, lavorativa o in qualsiasi area importante di funzionamento del soggetto. Purtroppo tali alterazioni comportamentali, anche legate all’eccessivo consumo di informazioni in Rete, si osservano come problematica emergente tra i giovani.

 Ad oggi come si può curare la DE?

Per il trattamento della disfunzione erettile si utilizzano terapie farmacologiche. La valutazione urologica di base è indispensabile perché esclude tutte le potenziali problematiche organiche, in seguito l’urologo decide dove indirizzare il paziente come seconda linea, sempre dopo aver tentato una soluzione terapeutica temporanea.

Tra le principali terapie farmacologiche troviamo:

  • Gli inibitori della fosfodiesterasi (PDE5-i), rappresentati da sildenafil, tadalafil, vardenafil e avanafil. Questi farmaci, tramite l’inibizione enzimatica, potenziano notevolmente l’effetto dell’ossido di azoto endogeno, rilasciato in seguito alla stimolazione sessuale. Quando l’ossido di azoto viene liberato, l’inibizione del PDE-5 da parte dei farmaci determina un rilassamento della muscolatura liscia e un afflusso di sangue, con conseguente erezione.

  • I farmaci a base di prostaglandine che si iniettano nel corpo del pene (iniezione intracavernosa) o attraverso l’uretra (iniezione transuretrale): necessitano di addestramento del soggetto e di solito sono di seconda scelta perché il loro utilizzo è spesso interrotto dal paziente a causa di alcuni effetti come erezione innaturale e dolore al pene.

    Entrambe le terapie possono essere efficaci ma, come abbiamo già ribadito, occorre un approccio multidisciplinare per la DE e per questo si consiglia di essere affiancati da un counselling sessuologico, anche nel contesto di coppia. L’OMS definisce il couselling come attività di sostegno che consenta di essere consapevoli delle proprie risorse interiori e trasformarle in stili di vita soddisfacenti e in comportamenti responsabili. Sconsiglio in modo categorico l’acquisto di farmaci online, perché possono essere rischiosi per la salute in quanto possono contenere ingredienti attivi al di sotto degli standard, di scarsa qualità o in quantità non corretta. Possono inoltre essere contaminati da eccipienti non idonei in quanto non sottoposti all’appropriata valutazione di qualità, sicurezza ed efficacia richiesta dalle autorità regolatorie.

 Si stanno tentando nuove terapie?

Fino a che non si individui con certezza una causa scatenante, qualsiasi terapia non può considerarsi totalmente risolutiva. Negli ultimi anni è emerso l’utilizzo delle onde d’urto focalizzate (ESWT) per stimolare la vascolarizzazione del pene, con buoni effetti soprattutto durante il trattamento, che vengono però persi progressivamente con la sua interruzione. Per questo sono necessarie numerose sedute di trattamento.
Recentemente è stato proposto un gel topico glicerilico allo 0,2%, formulato in un sistema di somministrazione topica ad assorbimento potenziato per il trattamento della disfunzione erettile, che sembrerebbe essere stato associato a significativi miglioramenti rispetto al placebo: in circa la metà dei pazienti, l’inizio dell’erezione è stato notato entro 5 e 10 minuti dalla somministrazione. Dobbiamo però aspettare ulteriori sviluppi per dare un giudizio sull’utilità di tale terapia.
In termini di prospettive future, sembrerebbe fondamentale prevenire questi disturbi tramite un’adeguata educazione sessuale e relazionale nei più giovani, lavorando sulla consapevolezza della propria persona e facendo conoscere anatomicamente e fisiologicamente le varie componenti che hanno luogo durante l’atto sessuale. Contestualmente, andrebbero incoraggiati stili di vita adeguati ad evitare disfunzioni organiche e metaboliche che possono sfociare in un futuro disturbo della sfera sessuale.

Questa intervista è stata pubblicata anche sul magazine online Medici Oggi, rivista fondata da Springer  con cui collaboro.

Foto Credits | StockSnap

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Scoliosi e sport: quali sono le attività che si possono praticare?

Scoliosi e sport vanno d’accordo? A questa domanda non è semplice rispondere, perché la prima cosa da considerare è quanto la disciplina sportiva interessa la colonna vertebrale, quali movimenti sono implicati, se c’è una rotazione della colonna o se questa è soggetta a qualsivoglia tipo di pressione.

Oggi approfondisco il tema, provando a illustrarvi quali siano gli sport più indicati per chi soffre di questo disturbo.

La scoliosi deriva dal termine greco skolíosis ‘incurvamento’, che a sua volta deriva da skolíos ‘curvo’. Indica per l’appunto una curvatura laterale della colonna vertebrale associata alla rotazione delle vertebre (corpi vertebrali). Colpisce il 3% della popolazione generale e interessa soprattutto la fascia d’età tra i 10 e i 20 anni, in particolar modo le femmine.

Se soffri di scoliosi e ami fare sport è meglio non praticare attività a livello agonistico, soprattutto se si tratta di discipline che sollecitano particolarmente la colonna vertebrale o una sua rotazione, come nuoto e danza classicaE se puoi, indossa il corsetto quando fai sport.

Vediamo quali attività sportive si possono fare e quali invece è bene evitare o limitare.

Lo sport serve?

Lo sport serve sempre, ma partendo dal presupposto che non può essere visto come terapia a sé stante, è utile per mantenersi in forma. Ci sono però dei fattori da prendere in considerazione se si soffre di scoliosi e si vuole praticare sport: se l’attività prevede rotazione della colonna vertebrale, asimmetria costale e dorso piatto, è meglio evitarli.

Se invece sono presenti solo due di questi fattori, con un buon riscaldamento e una corretta preparazione (e continuando a portare il corsetto) puoi fare nuoto anche se hai la scoliosi. si può proseguire l’attività sportiva. tieni presente però che oltre al riscaldamento e alla preparazione muscolare, devi fare attenzione anche all’alimentazione: la corretta idratazione (almeno due litri di acqua al giorno) associata all’assunzione di alimenti a base di proteine animali, legumi e frutta, è importante.

Sport e scoliosi

Se soffri di scoliosi sarebbe meglio evitare di praticare sport a livello agonisticosoprattutto quelle discipline che implicano un’ alta mobilizzazione del rachide, vale a dire torsioni, flessioni o estensioni della colonna vertebrale, perché rendono la colonna più flessibile e quindi più facilmente deformabile. Come danza e nuoto.

Negli altri casi, che sono per fortuna molto più numerosi e frequenti (casi, cioè, nei quali la scoliosi non ha raggiunto una riconosciuta gravità e l’attività sportiva è praticata solo a livello amatoriale), si può fare sport, senza però trascurare gli esercizi di cinesiterapia.

Nuoto e scoliosi

In passato, ma accade ancora oggi, a un ragazzo scoliotico veniva prescritto il nuoto come terapia per la scoliosi. A livello però di ricerche scientifiche, non esistono evidenze certe che questo sport possa aiutare chi soffre di scoliosi. Anzi, come ho avuto modo già di ribadirlo in questo articolo, potrebbe addirittura peggiorarla. Alcuni studi già negli anni 80’, come quello pubblicato su Spine nel 1982, hanno infatti dimostrato l’infondatezza di tale convinzione. Più recentemente, l’ISICO – Istituto Scientifico Italiano della Colonna Vertebrale ha ribadito il concetto nello studio pubblicato nel 2013, che sottolinea  come il nuoto non deve essere consigliato come terapia per la scoliosi e che, se praticato in eccesso, può causare mal di schiena.

Il nuoto, infatti, esclude qualsiasi ricostruzione posturale perché in acqua non si può fare leva su punti fissi come accadrebbe all’asciutto. Questo limita anche il controllo delle torsioni della colonna vertebrale, le inevitabili anti versioni del bacino e le forze vettoriali  dei muscoli del dorso. Inoltre, le bracciate simultanee e bilaterali tipiche del “nuoto a farfalla o delfino” potrebbero incidere negativamente, in ragione di un eccessivo sviluppo dei muscoli pettorali, su una preesistente accentuata curvatura dorsale. Lo stesso vale per lo stile “a rana” che potrebbe avere un effetto cifotizzante (vale a dire che accentua la curvatura della colonna vertebrale a livello toracico) e provocare dolore. Questo perché il movimento di estensione del capo per inspirare accentua la lordosi cervicale e, di conseguenza, anche la lordosi lombare.

Sollevamento pesi e scoliosi

Il tradizionale sollevamento pesi mette sotto sforzo la schiena, per cui non te lo consigliamo. Il rachide di una persona scoliotica è già fragile, e il sollevamento pesi può determinare un carico sulle vertebre molto elevato.  Così come dovresti evitare esercizi come squat e affondi che agiscono sulla parte inferiore del corpo mettendo sotto sforzo la schiena, già compromessa per la scoliosi. È importante, in generale, evitare gli esercizi asimmetrici, da eseguire, eventualmente, solo su indicazioni dell’ortopedico. Durante l’esecuzione degli esercizi consigliati, inoltre, devi fare attenzione a non andare in iperlordosi lombare.

Equitazione e scoliosi

L’equitazione, se da una parte può essere utile perché aiuta a migliorare il controllo posturale, a stimolare l’equilibrio e a sviluppare una muscolatura più specifica della colonna vertebrale, dall’altra però può essere deleteria per chi soffre di una scoliosi di media o grave entità: il cavaliere è sottoposto a continui sbalzi dalla sella determinando in questo modo un notevole trauma a livello della colonna.

Arti marziali e scoliosi

Arti marziali e scoliosi non vanno troppo d’accordo. Non tanto per i movimenti tipici di queste discipline, ma per il rischio di ricevere colpi alla schiena che possono determinare delle lesioni a livello della colonna vertebrale. Inoltre, in alcune arti marziali, l’atleta può cadere, accidentalmente o a causa di un colpo: questo trauma può essere comunque deleterio per un soggetto scoliotico.

Tennis e scoliosi

Il tennis agonistico, che oggi si inizia già da ragazzini, negli anni della crescita viene praticato anche per due-tre ore al giorno. In un bambino scoliotico, questo eccessivo allenamento negli anni della crescita può comportare un  potenziamento asimmetrico dei gruppi muscolari del cingolo scapolare (la parte anatomica che comprende scapola, omero e clavicola). Le frequenti torsioni tipiche di questo sport (si pensi al “rovescio”) potrebbero aggravare una scoliosi nella sua fase iniziale.

 

Scherma e scoliosi

Quello che si può notare in chi pratica scherma è l’abbassamento della spalla dal lato del braccio dominante, ma questo è dovuto a un movimento di rotazione della scapola e non è assolutamente da ricondurre alla presenza di una scoliosi.
La scherma, tuttavia, può comportare uno sviluppo maggiore dei muscoli più sollecitati in questa pratica sportiva, come la  muscolatura del tronco superiore. In questi casi può insorgere l’ipertrofia muscolare. Ma indossando il corsetto, la scherma si può comunque praticare.

Golf e scoliosi

Gli effetti benefici del golf, anche in virtù dell’ambiente nel quale si gioca, lo rendono consigliabile a qualunque età. E anche a chi è affetto da scoliosi.
Se usi il corsetto puoi praticare questo sport anche in presenza di una curva scoliotica importante. In questa disciplina l’elemento di rotazione della colonna vertebrale è presente soprattutto nel back-swing, termine con cui si identificano i   movimenti che consentono di portare il bastone ad un punto dal quale è possibile farne iniziare la discesa per colpire la palla nel modo corretto. Durante questi movimenti, se fatti in assenza di corsetto ed esercizi correttivi, il soggetto scoliotico potrebbe aggravare la propria scoliosi.
Per cui, il golf va bene, ma se soffri di scoliosi non dimenticare di indossare il corsetto.

Danza e scoliosi

Statisticamente, nella danza classica e in attività simili (ginnastica ritmica e artistica) molti ballerini risultano affetti da scoliosi con doppia curva (DMC, Double Major Curve). Si tratta di una scoliosi in cui la colonna vertebrale forma due curve, come una S, il cui angolo è quasi uguale. In generale chi è affetto da DMC pratica più attività sportiva rispetto a chi ha una scoliosi a forma di C, a curva singola (SMC, single major curve). In generale, in caso di scoliosi evolutiva, la danza, soprattutto quella classica, sarebbe da evitare.
Come ha affermato Leon Scott, assistant professor on Scott, assistant professor presso il Clinical Orthopedics & Rehabilitation Vanderbilt University Medical Center, nonché  ex membro del team medico del Boston Ballet: “Nella mia esperienza, il modo in cui a chi studia danza classica viene richiesto di tenere la schiena è il contrario delle curve naturali della colonna vertebrale. Se si comincia a studiare danza classica in età molto giovane, la maggiore frequenza delle sessioni di studio e l’aumentata durata della danza sono associate con un maggiore rischio di sviluppare la curvatura anormale tipica della scoliosi”. Quindi nella danza classica, l’inversione delle curve fisiologiche può peggiorare una scoliosi preesistente o addirittura determinarne l’insorgenza.

Si può fare sport con il corsetto?

Sì, si può fare sport con il corsetto praticamente per tutte le discipline anche se potrebbe far bene dedicare l’ora libera per lo sport senza indossarlo. Questo perché il corsetto, se portato a lungo, tende a irrigidire la colonna vertebrale e a indebolire la muscolatura di sostegno. Fare sport, una o due ore a settimana, senza portarlo potrebbe aiutare a sviluppare le abilità neuromotorie della colonna vertebrale, libera dalla costrizione del bustino. Ma in ogni caso sono molti i giovani che lo indossano senza particolari problemi e in modo del tutto naturale. In caso di nuoto, sarà il medico a indicare se sia il caso di togliere o mantenere il bustino.
Chi indossa per alcuni anni, e per molte ore al giorno, il corsetto, se non pratica sport e non esegue esercizi specifici tende a “irrigidirsi” nella posizione del bustino, mantenendola anche quando non lo indossa. Lo sport ha, tra i tanti, il grande pregio di aiutare a mantenere la scioltezza e la naturalezza nei movimenti del tronco.

Di sport e scoliosi ne ho parlato anche sul magazine online Ohga!

Foto Credits:

Hebi B.Nicola Giordano |Daniel Tay | skeezePexels | Alexandr Ivanov

Articolo realizzato con il contributo del dottorRodolfo Lisi, docente di Scienze Motorie, Specializzato in Posturologia e in Cultura Sportiva

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La scoliosi: oggi quali trattamenti sono possibili?

Il nome scoliosi deriva dal termine greco skolíosis ‘incurvamento’, che a sua volta deriva da skolíos ‘curvo’. Da un punto di vista anatomico, il rachide (termine tecnico per la colonna vertebrale) di una persona si presenta perfettamente allineato sul piano frontale. Quando soffri di scoliosi, invece, la tua colonna vertebrale, sempre visualizzata  di fronte, presenta delle curvature laterali.

La scoliosi interessa soprattutto i soggetti giovani e tende poi a stabilizzarsi nell’età adulta. Per riconoscerla da altre patologie della colonna vertebrale (polimorfismi, chiamati anche atteggiamenti scoliotici) occorre individuare il “gibbo”, tratta di un’asimmetria toracica che si nota quando il bambino, visto di spalle, si piega in avanti a mani giunte.  E devono essere presenti le rotazioni dei corpi vertebrali. In assenza di questi elementi potremmo trovarci di fronte a polimorfismi, atteggiamenti posturali scorretti che tendono a sparire spontaneamente durante la crescita.

Alcune indicazioni di scoliosi nei bambini possono essere una spalla più alta dell’altra, una spalla sembra sporgente, un fianco più alto dell’altro, la testa del bambino non è centrata

Esistono diversi tipi di scoliosi.

  • Scoliosi idiopatica. Interessa l’80% delle persone con scoliosi e si manifesta tra i 10 e i 18 anni. È più comune nelle femmine. Questo tipo di scoliosi tende a stabilizzarsi con il raggiungimento dell’età matura, ma in casi di curvature del rachide che superano i 50 gradi, la scoliosi potrebbe progredire anche in età adulta. Le cause di questo tipo di scoliosi sono sconosciute.
  • Scoliosi congenita. Si verifica solo in un neonato su diecimila e può associarsi ad altre patologie, come insufficienza renale e problemi alla vescica.
  • Scoliosi neuromuscolare. Causata da disturbi del cervello, del midollo spinale e del sistema muscolare, si manifesta soprattutto nei soggetti affetti da spina bifida, paralisi cerebrale, sindrome di Marfan o paralisi. Questo tipo di scoliosi impedisce a nervi e muscoli di mantenere un corretto equilibrio
  • Scoliosi degenerativa o scoliosi ad insorgenza adulta. Questo tipo di scoliosi si verifica soprattutto dopo i 65 anni, ed è provocata dalla degenerazione delle faccette articolari, che spostano la colonna vertebrale lateralmente. Il rachide in questo caso può essere interessato anche da osteoporosi, fratture da compressione e degenerazione del disco.

I trattamenti 

I trattamenti della scoliosi hanno come  obbiettivo quello di arrestare l’evoluzione della patologia. Si possono adottare approcci ortopedici (il cosiddetto metodo “incruento”) o chirurgici (metodo “cruento”). In generale, per verificare se persiste o evolve la deviazione della colonna vertebrale sono necessari esami e visite mediche.

Il corsetto ortopedico o l’apparecchio gessato

L’utilizzo di questi sistemi di correzione è indicato quando la curva della colonna vertebrale è compresa tra i  20-25° e 30-35°. L’azione fondamentale del corsetto è quella di correggere la deviazione della colonna, consentendo l’accrescimento corretto della stessa. Il tipo di corsetto e il tempo della sua utilizzazione dipenderanno dall’accrescimento vertebrale residuo e dalle condizioni generali del paziente. Per quanto concerne il corsetto ortopedico amovibile, ce ne sono diversi modelli. Alcuni, ultimamente, sono stati sviluppati senza comprendere il rachide cervicale (i cosiddetti corsetti corti) e risultano un po’ più belli da indossare. I corsetti gessati, invece, da un punto di vista correttivo sono sicuramente più efficaci. Pur considerando che, negli ultimi anni, il loro utilizzo è stato in parte ridimensionato, rappresentano ancora un valido strumento di correzione nelle scoliosi gravi e nei periodi più delicati dell’accrescimento.

L’intervento chirurgico

La chirurgia diventa necessaria quando la curva arriva a 40-50° o più e  quando il corsetto (quello ortopedico o quello gessato) non riesce più a impedire la progressione della scoliosi. Nel 1962 Paul R. Harrington eseguì il primo trattamento chirurgico con impiego di una barra di acciaio che permetteva la correzione della scoliosi, in seguito al quale però occorreva comunque indossare il bustino gessato per 10-12 mesi. Nel 1983, i due ortopedici transalpini Yves Cotrel e Jean Dubousset proposero un nuovo sistema  che consentiva di evitare di indossare tutele esterne come i bustini, dopo l’intervento. Il paziente, in tal modo, poteva essere dimesso pochissimi giorni dopo l’operazione. Questo è il tipo di intervento che si esegue ancora oggi.

Altri trattamenti

Al momento, non esistono altri trattamenti efficaci per la scoliosi. Gli esercizi correttivi (cinesiterapia), danno buoni risultati nel trattamento della scoliosi idiopatica dell’adolescente, soprattutto in associazione con il corsetto. Si tratta di esercizi di educazione psicomotoria che migliorano la postura del soggetto. Ovviamente, sarebbe assurdo pretendere di correggere in questo modo una deformità vertebrale come la scoliosi; ma si può ridurre o perlomeno cercare di frenarne l’evoluzione.

Si può fare sport con la scoliosi? Sì, ma è meglio praticarlo indossando il corsetto ed evitare di farlo a livello agonistico. In questo articolo spiego quali sono le attività sportive più indicate per chi soffre di scoliosi.

Foto Credits | Sven Lachmann | Giulia Marotta

Articolo realizzato con il contributo del dottorRodolfo Lisi, docente di Scienze Motorie, Specializzato in Posturologia e in Cultura Sportiva

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