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La Comunicazione del rischio in sanità

Una delle cose che abbiamo notato tutti durante questa pandemia è stata l’importanza di comunicare bene. Quando parlo di comunicare bene mi riferisco soprattutto alla comunicazione del rischio: dalla prima comparsa del virus ai vaccini, come è stata comunicata questa pandemia?

Comunicare non significa infatti semplicemente dire qualcosa a qualcuno, in qualche modo. Ma assicurarsi che il destinatario del messaggio abbia compreso nel modo giusto.

E quando l’oggetto da comunicare è il rischi (clinico, sanitario) quanto ho appena affermato è ancora più importante.

Ma procediamo per ordine e diamo un nome alle cose.

Cosa si intende per comunicazione del rischio, soprattutto in ambito sanitario?

Intanto definiamo il concetto di rischio: secondo il dizionario Treccani, si tratta dell’eventualità di subire un danno connessa a circostanze più o meno prevedibili. In parole semplici, è una stima del pericolo che si può correre e dell’oltraggio (danno) che ne può derivare.

Pertanto, non è un concetto semplice da comunicare.

In questa pandemia abbiamo assistito a istituzioni spesso confuse su cosa, come e quando comunicare le informazioni. Anziché basare la comunicazione su fatti oggettivi, spesso si è assistito a toni paternalistici che ora rassicuravano con virtuali pacche sulle spalle, ora ammonivano, ora terrorizzavano. E chi sono i destinatari di questa comunicazione?

I cittadini. Che in questa comunicazione un po’ raffazzonata (per usare toni eufemistici) sono stati considerati come persone da informare un po’ come viene, con le informazioni che si hanno, senza soffermarsi troppo su toni e modalità. Senza spiegare perché le cose avvengono in un certo modo. Lasciando un vuoto.

E quando c’è un vuoto comunicativo, questo viene riempito da altri soggetti, media, divulgatori scientifici improvvisati, medici che cercano microfoni e giornalisti impreparati sui temi sanitari che glieli sventolano volentieri sotto il mento per cogliere qualsiasi afflato, frase, parola o rigurgito, su qualsiasi cosa riguardi la pandemia. Abbiamo visto immunologi e virologi affermare tutto e il contrario di tutto, in tv, ogni giorno. Alimentando così una confusione tra il pubblico che non è stata in nessun modo smorzata dalle istituzioni il cui intervento, a mio avviso, nel campo della comunicazione è stato minimo. Invisibile.

Non è facile comunicare qualcosa che non si conosce

Questa affermazione è. vera fino a un certo punto. le istituzioni potevano essere impreparate sul virus, certamente. Ma non potevano essere impreparate sulla comunicazione del rischio, ch e prevede una competenza anche nel comunicare l’incertezza. Anche nel comunicare quando non si hanno informazioni, ma i cittadini le pretendono (giustamente).

La comunicazione del rischio non è qualcosa che si improvvisa, che può fare chiunque, che si esercita nel momento dell’emergenza e si smette quando l’emergenza finisce.

E’ un flusso continuo, che non smette mai, che prepara il terreno nei tempi ordinari, per essere pronti in  straordinari.

Pianificazione e comunicazione rappresentano le scelte strategiche essenziali per sviluppare interventi in grado di fronteggiare una situazione di emergenza.

E noi italiani, lo sappiamo, nella pianificazione siamo un disastro. Genio, improvvisazione e creatività, caratteristiche tipicamente nostrane, aiutano, ma se si tratta di gestire una pandemia, da sole servono a poco.

Come si fa a fare una buona comunicazione del rischio durante una pandemia?

Innanzitutto vanno predisposte le strutture, i servizi, definiti i ruoli, va identificato un organo nazionale con funzioni di coordinamento delle attività e un nucleo di comunicazione a livello regionale e locale. E  va nominato un portavoce. Ma non un portavoce del presidente del Consiglio, ma di tutto il Governo e che si occupi solo di comunicazione dell’emergenza.

In questa crisi le notizie principali le ho apprese dai media o andandomi a leggere testualmente i vari DPCM o decreti. Non ho visto una figura intermediaria, governativa, che si prendesse la briga di comunicare quanto deciso dal Governo. Tutto in pasto ai giornalisti, dall’aula alla sala stampa, e che se la vedessero loro. Non funziona così, per me.

La comunicazione è una competenza che si acquisisce con lavoro e professionalità. E non si esaurisce nel passaggio di informazioni, ma è la risorsa che permette di creare rapporti e collaborazioni, di affrontare momenti di difficoltà e di conflitto, sempre presenti in ogni piano d’intervento, in modo particolare nell’emergenza. Ecco perché la competenza comunicativa va gestita con cura e mantenuta nel tempo, per evitare che diventi essa stessa un rischio. E va attuata sempre, a prescindere dall’emergenza, per preparare i cittadini e costruire un rapporto di fiducia che vedrà i suoi frutti proprio nel momento in cui i cittadini devono fidarsi ancora di più delle istituzioni, come in un’emergenza sanitaria.

Una comunicazione del rischio del rischio seria ti racconta l’importanza dei vaccini, come funziona un’infezione, che cosa sono i virus, etc….anche nei momenti in cui non ci sono emergenze. E’ questo il momento in cui occorre preparare le persone a prendersi cura di sè. Così, nel momento dell’emergenza, non solo i cittadini saranno preparati ma si fideranno anche di più delle istituzioni, perché abituati a ricevere informazioni puntuali e competenti.

Bisogna saper comunicare i fatti e i numeri in modo giusto e coerente.  Le persone vogliono capire, e avere tutti gli elementi per valutare in autonomia la situazione.  Non serve raccontare loro storielle annacquate per farle stare buone:  la “massa” non è composta da individui tutti uguali, ma da soggetti che posso pretendere, riconoscere e interpretare diversi livelli di informazione e complessità. La “massa” va presa seriamente, non trattata come un insieme di individui da informare il meno possibile, aggiungendo pacche sulle spalle (tranquillizzare) o sberle (allarmare), a seconda della situazione.

 

E qui entra in gioco la percezione del rischio

La percezione del rischio è direttamente influenzata da come il rischio è stato comunicato nel tempo. Spesso il giudizio dei cittadini non coincide con la valutazione scientifica, perché la percezione soggettiva è influenzata così tanto dalla componente emotiva che i fatti possono diventare meno importanti delle sensazioni.

Prendiamo i vaccini anti-COVID, per i quali la comunicazione del rischio si è proprio persa e a farne le spese sono stati soprattutto i cittadini che hanno rinunciato a certi vaccini per paure del tutto ingiustificate. I casi di trombosi per Astrazeneca che hanno gettato l’Europa nel panico sappiamo bene come sono stati comunicati dai vari giornali, con titoloni a nove colonne che parlavano del terrore in Europa per pochissimi casi di trombosi.  Chi prende l’aereo rischia 100 volte in più di sviluppare una trombosi rispetto a chi assume il vaccino Astrazeneneca. Eppure, ancora oggi, si teme di più il farmaco, che può salvarci la vita, dell’aereo, che è molto più rischioso sotto il profilo del rischio trombotico.

Perché volare ci fa meno paura di vaccinarci? Le campagne contro le vaccinazioni non sono iniziate con la pandemia da SARS-Cov-2, ci sono da sempre e negli ultimi anni, complici alcuni gruppi no vax che si sono fatti sentire coinvolgendo anche medici da ogni parte del globo, il dubbio sulle vaccinazioni è penetrato in modo significativo, tanto che nel nostro paese abbiamo dovuto introdurre diverse vaccinazioni obbligatorie per accedere all’istruzione scolastica.

Quando a fine 2020 è partita la campagna vaccinale per la COVID, a parte i padiglioni con le primule rosa, da parte del Governo che comunicazioni ci sono state? Qualche istituzione governativa ha spiegato come funzionano le vaccinazioni, che cosa sono, cosa occorre aspettarsi, quali sono i rischi apportati ai benefici, etc..?

No. E allora sono emersi i vari virologi, immunologi ed esperti vari a spiegarci tutte queste cose. Singoli divulgatori/medici che comunicano tramite canali privati o ripresi dai media. Non sono enti istituzionali. ho dovuto ascoltare questi professionisti o leggermi le spiegazioni riportate dai media per farmi un’idea dei vaccini. E il Ministero della Salute dove era in tutto questo? Che ruolo ha giocato nella comunicazione dei vaccini e della pandemia in generale?

Una questione di fiducia

Perché la fiducia delle persone non si conquista dall’oggi al domani, e basta un comunicato sbagliato per perderla. Celebre il caso di AIFA che a metà marzo 2021 rassicurava fortemente sulla sicurezza di Astrazeneca, per poi decidere di sospenderlo il giorno dopo. La conseguenza di quel messaggio sbagliato la stiamo pagando ancora oggi, perché nonostante gli open day di questo vaccino, tra le persone c’è ancora molto scetticismo e non sono in pochi quelli che, in sede di vaccinazione, chiedono di poter avere il vaccino a mRna, quello di Pfizer e Moderna.

La comunicazione non si basa solo sul messaggio da veicolare, quello è l’ultimo passaggio. Prima di comunicare, il comunicatore deve saper accogliere, ascoltare, dimostrare empatia, comprensione per la preoccupazione e solo dopo passare il messaggio informativo.

La diffusione della pandemia, la carenza di vaccini e di cure, le restrizioni e le imposizioni, sono tutti problemi che per essere affrontati richiedono la collaborazione delle persone e la loro fiducia: se non si è lavorato prima per ottenerla, non si può pretendere nel momento dell’emergenza.

L’obiettivo generale della comunicazione in una situazione di emergenza è aiutare il pubblico a poter gestire consapevolmente la preoccupazione evitando che si trasformi in panico o in un atteggiamento di completa indifferenza. La preoccupazione deve essere diretta verso una appropriata vigilanza, un apprendimento attento, e una preparazione costruttiva.

In questi mesi stiamo assistendo a un crescendo della cosiddetta pandemic fatigue, vale a dire una stanchezza mentale che ci fa abbassare la guardia e non ci fa più percepire il rischio di contrarre la Covid-19. Le persone, di conseguenza, rispettano sempre con meno voglia limitazioni e imposizioni.

Che cosa ha fatto il Governo per limitare la pandemic fatigue?

 L’OMS nei mesi scorsi ha chiesto esplicitamente ai governi di attivarsi in questo senso, attraverso azioni mirate a

  1. Conoscere e comprendere le persone: capire che cosa si cela dietro questa demotivazione è il primo passo per risolverla
  2. Rendere le persone parte della soluzione: coinvolgere la popolazione, in modo da far comprendere quanto sia importante il comportamento individuale per il benessere della comunità
  3. Permettere di vivere le proprie vite: le persone hanno bisogno di tornare alle loro abitudini quotidiane, il messaggio quindi deve trasformarsi da “non fare” a “fare in modo differente”
  4. Affrontare il disagio delle persone: la stanchezza causata dal periodo può essere affrontata favorendo atteggiamenti resilienti e cercando di alleviare le difficoltà attraverso un sostegno economico, sociale, emotivo e culturale.

I vari ristori economici non sono sufficienti, è ovvio. La gente vuole essere ascoltata, capita, motivata. Questo lavoro costante di relazione e comunicazione è stato del tutto assente.

L’ascolto e l’empatia sono essenziali per poter contenere alti livelli di emotività (paura, rabbia, risentimento) e per aiutare la persona ad attivare le sue risorse per affrontare in modo costruttivo la situazione di emergenza. Ma l’empatia non significa pacche sulla spalla, atteggiamento paternalistico, oppure totale silenzio, vuoto informativo per non creare preoccupazioni.

 

Per riassumere quindi ecco i punti salienti di una buona comunicazione del rischio:

  • Informare in modo trasparente, tempestivo, chiaro secondo le evidenze disponibili al momento
  • Dichiarare ciò che si sa e ciò che non si sa, la trasparenza è la scelta migliore.
  • Informare sempre e comunque perché il vuoto informativo è colmato da qualcun altro
  • Comunicare l’incertezza, riferendo ciò che si è fatto, ciò che si sta facendo, ciò che si intende fare.
  • Controbilanciare ogni messaggio negativo con molti messaggi positivi e costruttivi
  • Rispondere alle preoccupazioni degli interessati e non alle proprie.

Le informazioni vanno sempre trasformate in messaggi, cioè in una comunicazione che acquisti significato per le persone alle quali il messaggio è rivolto.

Per concludere, la comunicazione del rischio è tanto importante quanto la gestione del rischio stesso, anzi ne è pilastro fondamentale. Se la comunicazione è assente o sbagliata, la gestione ne risente. Ed è proprio quello che è successo nel nostro paese e che continua a succedere.

Ne ho parlato anche sul mio podcast “Post Sanità” ideato insieme aall’Avvocato Giuseppe De Marco, fondatore di LegalSanità.

Ascolta la piuntata:

Ascolta “Post-Sanità – Puntata n. 2 – La comunicazione del rischio” su Spreaker.

 

Fonti

  • EpiCentro – Cosa significa comunicare su un rischio in situazioni di emergenza – https://www.epicentro.iss.it/focus/flu_aviaria/pdf/DeMei2.pdf
  • WHO – Pandemic fatigue: reinvigorating the public to prevent COVID-19: policy considerations for Member States in the WHO European Region – https://apps.who.int/iris/handle/10665/335820
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Cosa sappiamo del vaccino anti COVID di AstraZeneca?

Dopo lo stop delle settimane scorse, la strada per il vaccino di AstraZeneca continua a essere in salita.

A parte i problemi sulle forniture ai vari paesi Ue, tra cui il nostro, sul farmaco dell’azienda anglo-svedese i dubbi riguardano i modi con cui sono stati comunicati i dati dei trials, in alcuni casi con importanti omissioni, in altri con dati non aggiornati. EMA ha già chiarito che il vaccino è sicuro e i casi di trombosi cerebrale (quelli più gravi) sono stati così rari da non mettere in discussione la validità del farmaco. AstraZeneca è stato approvato in oltre cento paesi nel mondo, tra cui quelli Ue. Ma negli USA ancora temporeggiano.

Si va quindi avanti con le somministrazioni, come è giusto che sia, però è doveroso analizzare un po’ tutta la situazione e la comunicazione di AstraZeneca.

Prendo spunto da un articolo molto interessante pubblicato in questi giorni su Nature a firma di Smriti Mallapaty e Ewen Callaway

Qual è il ruolo del vaccino nella pandemia?

A differenza degli altri in circolazione (Pfizer e Moderna) quello di AstraZeneca non deve essere conservato a temperature molto basse e costa molto, molto meno: pochi euro a dose. Due caratteristiche che lo eleggono tra i preferiti da diffondere su larga scala, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Più di 20 milioni di dosi sono state somministrate nei paesi dell’UE e nel Regno Unito, così come altre 27 milioni in India di una versione del vaccino nota come Covishield. Il vaccino viene anche consegnato attraverso lo schema COVAX a dozzine di paesi a basso e medio reddito: AstraZeneca ha promesso 170 milioni di dosi a COVAX e prevede di produrre complessivamente 3 miliardi di dosi entro la fine del 2021.

Quanto è efficace il vaccino?

Il 22 marzo, AstraZeneca ha dichiarato in un comunicato stampa che, secondo un’analisi preliminare svola in uno studio condotto u 32.449 adulti negli Stati Uniti, Perù e Cile  (interim analysis, vale a dire una valutazione dei dati che il promotore della ricerca svolge prima della presentazione finale dello studio) due dosi sono efficaci al 79% nel prevenire COVID-19. Nessun partecipante che ha ricevuto il vaccino è stato ricoverato in ospedale o è deceduto, anche se il 60% aveva condizioni preesistenti associate ad un aumentato rischio di malattie gravi, come il diabete o l’obesità. Nel complesso sono stati segnalati solo 141 casi di COVID-19, ma il comunicato non spiega chi di questi 141 abbia ricevuto il vaccino e chi no.

Il giorno seguente, il National Institutes of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) degli Stati Uniti ha affermato che un comitato indipendente di monitoraggio della sicurezza dei dati (DSMB) che sovrintendeva allo studio temesse che queste informazioni fossero un po’ datate e fornissero quindi una visione incompleta dell’efficacia del vaccino. In una lettera ottenuta dal Washington Post, il DSMB ha dichiarato al NIAID di aver esortato l’azienda a comunicare un’efficacia del 69-74%, sulla base di dati più aggiornati. AstraZeneca si è difesa affermando che l’ efficacia del 79% era basata su un’analisi ad interim dei primi dati fino al 17 febbraio 2021 e che deve ancora pubblicare i risultati finali dello studio. Questi risultati, ha aggiunto la società, sarebbero “coerenti con l’analisi ad interim”.

Secondo altri esperti, come Topol, medico e direttore dello Scripps Research Translational Institute di La Jolla ( California), ci si aspetta che l’efficacia percentuale finale dello studio si manterrà tra il 60% e il 70%, in linea con gli studi precedenti condotti nel Regno Unito, Brasile e Sud Africa, che hanno coinvolto più di 20.000 partecipanti, e hanno riportato un’efficacia compresa tra il 60 e il 70%. Ma questi erano basati sui risultati aggregati di più studi con diversi regimi di dosaggio – studi che l’EMA ha descritto come “sub-ottimali”.

L’efficacia di Astrazeneca potrebbe quindi essere simile a quella del vaccino anti COVID-19 di Johnson & Johnson (66%), ma inferiore alle cifre per i vaccini di Pfizer e Moderna, entrambi con efficacia superiore al 90%.

Finora, non ci sono state prove di differenze in termini di efficacia e sicurezza in persone di diverse etnie. L’ultimo annuncio ha affermato che il 22% dei partecipanti allo studio erano ispanici, l’8% erano neri e il 4% erano nativi americani.

Quanto è sicuro il vaccino?

Questa è stata la domanda che ha tenuto con il fiato sospeso l’Europa nelle scorse settimane, quando più di 20 paesi hanno sospeso le somministrazioni dopo aver ricevuto segnalazioni sparse di problemi rari di coagulazione del sangue, soprattutto nelle donne di età pari o inferiore a 55 anni. Vaccino sospeso benché fosse stato approvato e distribuito a milioni di persone nel Regno Unito e l’OMS continuasse a raccomandarne l’uso, affermando che i benefici superavano i rischi.

Lo scorso 18 marzo, EMA ha dichiarato che il vaccino era sicuro e non era associato a un rischio più elevato di coagulazione del sangue, ma non poteva escludere un legame con i due episodi di trombosi rare che colpiscono il cervello (trombosi cerebrale dei seni venosi, CVST). EMA in effetti ha suggerito di indicare questi rischi nel bugiardino del prodotto.

Una spiegazione per i problemi di coagulazione

Con il rilascio dei dati dell’analisi preliminare, AstraZeneca ha anche affermato di non aver identificato alcun problema di sicurezza e di non aver trovato casi di  trombosi cerebrale dei seni venosi.  Ma altri ricercatori avvertono che la condizione potrebbe essere troppo rara – compare in una o due persone su un milione – per manifestarsi in uno studio che ha testato il vaccino solo su alcune decine di migliaia.

Secondo l‘agenzia Reuters, alcuni ricercatori in Germania e Norvegia, dove sono stati segnalati alcuni casi di trombosi in seguito alla vaccinazione, hanno ipotizzato che il vaccino potrebbe innescare una risposta immunitaria in cui il corpo produce anticorpi che potrebbero provocare coaguli di sangue e stanno studiando possibili trattamenti. La CVST, sebbene rara, è stata associata alla gravidanza e all’uso di contraccettivi orali. “Questa è una delle cose su cui indagheremo ulteriormente nel prossimo futuro”, ha affermato Sabine Straus, presidente del comitato per la sicurezza dell’EMA.  L’EMA intende anche indagare se coloro che hanno sviluppato la condizione fossero stati infettati in precedenza o al momento del vaccino con COVID-19, perché questa infezione, come ormai ben sappiamo, uò causare coaguli di sangue.

Quanto è efficace il vaccino nelle persone anziane?

I primi studi di AstraZeneca includevano un numero troppo basso di partecipanti di età superiore ai 55 anni per  determinare se il vaccino offrisse la stessa protezione per le persone. Per questa mancanza di prove alcuni paesi,  inclusa  l’Italia, non hanno approvato da subito il vaccino per le persone di età pari o superiore a 55 anni. Successivamente poi AIFA ha approvato l’uso senza limiti di età.

I dati dello studio ad interim di AstraZeneca suggeriscono che il vaccino è efficace all’80% nel prevenire il COVID-19 tra le persone di età pari o superiore a 65 anni, che costituivano il 20% dei partecipanti allo studio. Il comunicato stampa non afferma però quanti casi di COVID-19 sono stati trovati in questa coorte. Ann Falsey, medico specializzato in malattie infettive dell’Università di Rochester, a New York, che ha co-condotto lo studio di AstraZeneca, ha affermato che c’erano abbastanza infezioni nel gruppo di età più avanzata per consentire un confronto statisticamente significativo. Ma sarebbe stato più opportuno fornire dati precisi, gli “abbastanza” e altre valutazioni spannometriche per decidere la sicurezza di un vaccino dovrebbero essere banditi.

Qual è la tempistica ottimale delle dosi?

Le dosi da somministrare sono state un’altra ombra di questo vaccino. Già a novembre era stato rivelato come un sottogruppo di partecipanti che avevano ricevuto accidentalmente (sic!) meno vaccino nella prima dose, avevano meno probabilità di sviluppare COVID-19. Un’analisi successiva ha suggerito che la maggiore protezione non derivava da un errore di dosaggio, ma dal tempo più lungo tra le dosi. I primi studi erano stati originariamente progettati per un regime a una dose, ma i ricercatori hanno deciso di aggiungere un richiamo dopo che i dati hanno dimostrato che una singola dose non produce una risposta immunitaria abbastanza forte. Hanno provato una serie di intervalli tra le dosi, da 4 a 12 settimane. I risultati dell’analisi preliminare di AstraZeneca  presentati nei giorni scorsi non aiutano a chiarire le idee su come su ottimizzare il dosaggio, perché a tutti i partecipanti sono state somministrate due dosi a distanza di quattro settimane. Falsey afferma che un intervallo più lungo indurrebbe probabilmente una risposta immunitaria più forte, ma un intervallo più breve è più pratico nel mezzo di una pandemia. L’OMS raccomanda un intervallo da 8 a 12 settimane. Anche qui, la poca chiarezza contribuisce a confondere le idee su questo vaccino, ma dobbiamo anche renderci conto che lo stiamo sperimentando adesso e che ci vuole tempo per avere certezze.

Quando arriverà il vaccino negli Stati Uniti?

AstraZeneca ha in programma di presentare domanda per l’autorizzazione all’uso di emergenza presso la Food and Drug Administration (FDA) nelle prossime settimane e spera di ottenere l’approvazione ad aprile.

A differenza di altri regolatori, la FDA utilizza i dati grezzi della sperimentazione per condurre la propria analisi.

Non è chiaro se il vaccino sarà ampiamente diffuso negli Stati Uniti, dove si stanno somministrando i vaccini di Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson. Ma i ricercatori temono che la confusione sull’efficacia del vaccino AstraZeneca possa intaccare la somministrazione a livello globale.

Come si comporta il vaccino Oxford – AstraZeneca contro le varianti?

Secondo gli studi finora disponibili, il vaccino di AstraZeneca è efficace contro variante B.1.1.7, rilevata per la prima volta nel Regno Unito, ma è meno efficace contro la B.1.351, rilevata per la prima volta in Sud Africa. Il Sudafrica ha sospeso la diffusione del vaccino AstraZeneca, ma l’OMS ne raccomanda ancora l’uso nelle regioni in cui circolano varianti preoccupanti.

A breve AstraZeneca inizierà le sperimentazioni sui vaccini di prossima generazione che funzioneranno contro tutte le attuali varianti SARS-CoV-2, e si spera siano disponibili per la fine di quest’anno.

 

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Nessuno è al sicuro finché non siamo tutti al sicuro

Sembra il solito slogan, della serie che chi compie buone azioni fa bene prima di tutto a se stesso e poi a chi riceve la buona azione. La solita raccomandazione intrisa di zucchero e speranza.
La realtà è un po’ più complessa di così. Anzi, è molto più complessa.
Potevo evitare lo slogan (che in realtà è una specie di mantra che l’OMS continua a ripetere da mesi) e andare subito al punto: se non vacciniamo tutta la popolazione mondiale, rischiamo di non uscirne.
Lasciare indietro i paesi che non possono permettersi i vaccini è un errore che può rivelarsi catastrofico. Per tutti.

Le varianti del SARS-Cov-2 in giro per il mondo ci stanno mostrando che più il virus rimane in circolo e maggiori possibilità ci sono di vedere nascere varianti dello stesso.
Il Sudafrica è un paradosso in questo senso: in quel paese circola una delle tre varianti in circolazione, eppure ad oggi le vaccinazioni non sono ancora iniziate.
Se volete rimanere aggiornati sulle vaccinazioni in tempo reale in tutto il mondo, consiglio vivamente il portale “Our World in Data” dell’Università di Oxford.

Se scorrete la lista dei paesi che stanno vaccinando la popolazione scoprirete che nei paesi più poveri le vaccinazioni non sono ancora partire. I paesi ricchi stanno acquistando vaccini contro il coronavirus, lasciando le regioni più povere vulnerabili e terreno fertile per le varianti, come quella trovata in Sudafrica, che potrebbero rendere i vaccini meno efficaci.

Al momento non ci sono evidenze certe sulla maggior pericolosità o letalità di queste mutazioni, le ricerche sono in corso e le aziende farmaceutiche che hanno prodotto vaccini stanno studiando l’efficacia degli stessi su queste nuove mutazioni.
Come ci racconta questo articolo del New York Times, mentre in diversi paesi si sono superate le 110 milioni di dosi somministrate, nel continente africano sono state iniettate, ad oggi, 25 dosi di vaccino. Venticinque.

Se le varianti, come sta succedendo, dai paesi più poveri migrano verso quelli più ricchi, quella che ai malpensanti sembra “solo” una tragedia per i paesi poveri, potrebbe diventare una tragedia globale.

Più il virus si diffonde, più tempo ci vuole per vaccinare le persone e maggiori sono le possibilità che continui a mutare in modi imprevedibili per la popolazione.
La variante sudafricana riguarda il 90% di tutti i casi accertati di Covid in Sudadrica. Ed è comparsa anche in altri paesi, come l’Italia (abbiamo il primo caso a Varese mentre sto finendo di scrivere questo articolo), Regno Unito e Stati Uniti.
I vaccini che si stanno somministrando in questo momento sono stati progettati per la prima forma di SARS-Cov-2: una volta somministrati, il corpo produce anticorpi per questa prima versione del virus, ma con le varianti il patogeno può diventare più resistente a quegli anticorpi.
Nel peggiore dei casi, non riuscire a fermare la diffusione del virus a livello globale (ad esempio, non vaccinando le popolazioni più povere, come sta succedendo) consentirebbe lo sviluppo di più mutazioni che potrebbero rendere i vaccini esistenti meno efficaci, lasciando vulnerabili anche le popolazioni vaccinate.
Anche negli scenari più ottimistici, al ritmo attuale di produzione, non ci saranno abbastanza vaccini per una vera copertura globale fino al 2023. Gli attuali piani di vaccinazione per l’Africa prevedono di vaccinare quest’anno solo il 20-35% della popolazione.
Questa disparità è al centro di ciò che Tedros Adhanom Ghebreyesus, il Direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha definito come un “catastrofico fallimento morale”, poiché le nazioni ricche si affrettano ad acquistare scorte di vaccini lasciando le nazioni povere e a reddito medio a lottare per trovarsele da soli.

Il vaccino di AstraZeneca, sviluppato con l’Università di Oxford, è attualmente l’opzione più conveniente al mondo, sviluppato anche con l’obbiettivo di poterlo diffondere ai paesi a basso reddito. Da lunedì 1 febbraio è arrivato in Sudafrica (un milioni di dosi circa), ma non si sa ancora nulla sua efficacia contro la variante. Altri nove milioni di dosi sono state ordinate per il vaccino di Johnson & Johnson, che però non è stato ancora approvato dall’ente regolatorio paese. Venerdì scorso l’azienda ha annunciato che l’ efficacia del suo vaccino è scesa dal 72% negli studi condotti negli Stati Uniti e al 57% in quelli condotti in Sudafrica.
Gli scienziati sperano che, se necessario, i vaccini possano essere modificati e si possano sviluppare richiami per affrontare nuove varianti, ma ciò richiede tempo.


Nell’ottica di aiutare i Paesi più poveri e fornire loro le dosi di vaccino anti Covid, lo scorso aprile l’Oms ha lanciato l’acceleratore Access to Covid-19 Tools (Act) un programma che riunisce governi, scienziati, imprese, società civile, filantropi e organizzazioni sanitarie globali. Una delle iniziative dell’acceleratore è Covax, un progetto globale guidato dalla Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), Gavi, Vaccine Alliance e Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e che ha partnership con produttori di vaccini di Paesi sviluppati e in via di sviluppo. Al progetto collabora anche l’Unione europea attraverso il programma Coronavirus Global Response, lanciato dalla Commissione europea per raccogliere contributi economici da parte di tutti i Paesi del mondo e facilitare l’accesso alle cure per i paesi più poveri.
Covax ha annunciato di essersi assicurata 2,1 miliardi di dosi per il 2021, ma non è chiaro quante di queste saranno effettivamente consegnate quest’anno.
Purtroppo però Covax da solo può fare ben poco.

Nell’articolo del New York Times che ho citato prima, Orin Levine, direttore dei programmi di consegna globale della Bill and Melinda Gates Foundation, ha affermato: “Entro la fine di quest’anno, probabilmente il 75% della popolazione nei paesi ad alto reddito sarà vaccinato”, rispetto al 25% nei paesi a basso reddito.
Per le nazioni africane, il ritmo lento della programmazione vaccinale non è una sorpresa.
Ai tempi dell’esplosione dell’HIV / AIDS, l’Africa aveva il maggior numero di infezioni e morti. Tuttavia, ci vollero almeno sei anni prima che il trattamento disponibile nelle nazioni ricche fosse reso disponibile per gli africani.
L’AIDS ha ucciso 12 milioni di persone in Africa in un decennio, anche se la mortalità negli Stati Uniti è scesa drasticamente, secondo le analisi dell’Africa Centers for Disease Control and Prevention. Le controversie sui diritti di proprietà internazionale hanno ritardato la produzione di più farmaci antiretrovirali (o generici economici).
Secondo il New York Times, l’India e il Sudafrica stanno facendo pressione sulla World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio) per costringere le aziende farmaceutiche a condividere la loro proprietà intellettuale sui vaccini contro il coronavirus, come hanno fatto alla fine con il trattamento dell’HIV/AIDS.
“Ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è la cooperazione esplicita di ogni singolo governo e di ogni singola azienda farmaceutica. Perché siamo sull’orlo del disastro”. Lo ha detto Fatima Hassan al New York Times. Fatima è avvocato e si occupa di diritti umani. Ha combattuto per l’HIV e i farmaci contro l’AIDS e ora si occupa dei vaccini anti-Covid-19. “Dobbiamo condividere la tecnologia e spendere miliardi per risparmiare trilioni”.

Il punto è proprio questo: per la smania di guadagnare vendendo solo ai pesi più ricchi, le aziende farmaceutiche si mostrano miopi oltre che poco responsabili da un punto di vista sociale: se i vaccini non saranno equamente distribuiti, l’infezione non sarà contenuta e continuerà a diffondersi, generando varianti che potrebbero inficiare l’efficacia dei vaccini in circolazione. Creare vaccini per la variante richiede tempo e soldi, tanti soldi. E mentre si attendono i nuovi vaccini, le varianti circolano e il contagio continua. E il loop potrebbe continuare.
Per fermare il loop bisogna vaccinare tutta la popolazione mondiale in un tempo congruo. Non è il tempo che ci manca, ma la volontà politica di imporre certe scelte anche a chi sta producendo i vaccini.

I paesi poveri non cercano solo aiuti economici e vaccini. Si augurano anche di poter loro stessi fare ricerca.

La Covid-19 Clinical Research Coalition nasce proprio per accelerare la ricerca sull’infezione in quelle aree in cui il virus potrebbe devastare i sistemi sanitari già fragili. I suoi fondatori hanno lanciato un appello ripreso dalla rivista The Lancet per cercare adesioni e diffondere il loro progetto. Quello che rimarcano gli autori è il fatto che la maggior parte degli studi è fatta in Europa, Usa, Cina mentre sono pochi quelli condotti in Africa, Asia meridionale e sudorientale e America centrale e meridionale. Il numero di casi confermati di Covid-19 segnalati in contesti poveri è piccolo non perché in questi Paesi ci si ammali di meno, ma perché i test per la diagnostica non sono sufficienti.
La coalizione punta quindi a ottenere aiuti non solo economici ma anche procedurali, per avviare le sperimentazioni in modo più snello ed efficiente, ad esempio utilizzando medicinali già sviluppati e approvati per altre indicazioni, e tutte le misure di supporto implementabili.

 

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Test rapidi antigenici: è il momento di usarli per gli screening di massa

Nella gestione della pandemia il tracciamento dei contagi, come sappiamo, è fondamentale.

Il sistema dei tamponi molecolari è al momento il gold standard per la diagnosi della COVID-19, ma i tempi per ricevere l’esito spesso sono lunghi, ci possono volere 24 ore come tre giorni (in alcuni casi anche una settimana). E nell’attesa, non si potrebbe uscire di casa. Ma chi controlla?

Il test è considerato il più attendibile per la diagnosi, ed è quello più impiegato nei laboratori pubblici. Ma in questo momento, con il virus che non smette di circolare, il tampone molecolare inizia a mostrare evidenti limiti: si attende troppo per l’esito. Oggi il tampone molecolare viene offerto quasi esclusivamente a chi ha più sintomi riconducibili a un’infezione da Sars-CoV-2 (e ai suoi eventuali contatti nelle stesse condizioni). La sola febbre, in molti casi, è gestita con l’isolamento fiduciario e una terapia a domicilio.

Corona Virus In Red Background - Microbiology And Virology Concept

Covid-19: non è solo una malattia respiratoria

La Covid viene spesso definita come malattia respiratoria, ma le evidenze scientifiche mostrano in maniera sempre più significativa quanto questa infezione non causi soltanto la polmonite interstiziale, ma abbia effetti su tutto l’organismo. Uno di questi è l’infiammazione dell’endotelio che è quella parte che riveste i vasi sanguigni e il cuore e che può causare diverse patologie vascolari.

Dottor Daniele Bissacco

In questi mesi di pandemia, soprattutto nella prima fase, non solo sono aumentati i casi di pazienti Covid con infiammazioni e patologie vascolari (come trombosi e altri disturbi a carico del sistema cardiaco) ma queste hanno riguardato anche i giovani, di solito meno interessati da questo disturbo che colpisce soprattutto con l’avanzare dell’età. Non solo, l’infiammazione da Covid lascia sulle pareti delle arterie cicatrici permanenti che nel tempo possono indebolire il sistema vascolare e portare a ricadute. Ne abbiamo parlato con Daniele Bissacco, chirurgo vascolare e research fellow del Policlinico di Milano nonché section editor di chirurgia cardiovascolare per la rivista Medici Oggi di Springer Healthcare.

Dottor Bissacco, quali evidenze scientifiche ci sono a supporto di questi effetti del coronavirus sul sistema vascolare periferico?

L’infezione da Covid, soprattutto all’inizio, è stata etichettata come una patologia puramente respiratoria. Con il tempo, si è visto che il tratto respiratorio e i polmoni sono solo la porta d’ingresso e la polmonite è una delle tante manifestazioni di questa patologia. Noi ora sappiamo che il virus entra all’interno delle cellule attraverso le vie aeree superiori e poi quelle inferiori, ma una volta inserito e replicatosi all’interno delle cellule polmonari, può tranquillamente agire e spargersi in tutti gli organi. Il danno d’organo che ne consegue può essere di due tipi: quello diretto, cioè causato dal virus all’interno delle cellule e quello indiretto, provocato dalla tempesta infiammatoria che il virus produce una volta che riesce a insediarsi in maniera significativa nell’organismo.

Per quanto riguarda l’apparato cardiovascolare, questi due meccanismi giocano un ruolo molto importante, prima di tutto perché il recettore ACE2 sul quale agisce il virus (è la porta d’ingresso nelle cellule) è ampiamente presente sia sulle arterie sia sulle vene del nostro corpo, in secondo luogo perché le cellule endoteliali, quelle che rivestono i vasi sanguigni, sono molto sensibili alla cascata infiammatoria e pro-trombotica scatenata dall’infezione da Covid. Quindi sì, c’è una correlazione con danni all’apparato cardiovascolare e gli studi hanno evidenziato delle patologie cardiache come infarto del miocardio o endocardite anche in pazienti senza patologie sottostanti aterosclerotiche. Anche a livello periferico (le arterie degli arti inferiori) si è visto un aumento notevole di patologie vascolari in pazienti Covid, quindi significa che le manifestazioni sono molto importanti in tutti gli organi e, essendo tutti gli organi irrorati dai vasi sanguigni, l’apparato cardiovascolare ha un ruolo principale in questo tipo di patologia.

Diversi articoli parlano dell’azione del virus sulle pareti dei vasi sanguigni davvero impressionanti, lascia dei segni comparabili a quelli presenti su una pista da hockey dopo una partita. È così?

Che sia hockey o altri sport, di certo sappiamo che è una partita dura e che avviene in maniera sistemica in tutti i vasi. Sono due i meccanismi con cui la Covid agisce in maniera patologica sui vasi sanguigni: il primo come già accennato è quello dell’endolite e cioè un’infiammazione importante delle cellule endoteliali con tutta la cascata infiammatoria che si ritrova anche in altri tipi di patologie infiammatorie; in secondo luogo, questo ambiente pro infiammatorio innesca tutta una serie di meccanismi che sono alla base delle trombosi venose e arteriose che in effetti abbiamo riscontrato nei pazienti Covid. Lo stadio finale di questi due meccanismi è il multiple organ failure, cioè una compromissione sistemica di tutti gli organi con, in alcuni casi, una prognosi infausta.

Quindi possiamo affermare che ci sono segni visibili a livello microscopico sulle pareti dei vasi e nella gestione dei pazienti Covid è essenziale prevenire questa infiammazione, perché è alla base di tutti i danni agli organi (rene, fegato, cuore apparato neurologico e soprattutto i polmoni), caratteristici di questa infezione.

 In questi mesi quali sono state le patologie vascolari più frequenti, sia nei pazienti Covid sia non Covid?  

Il problema di questa epidemia è che ha avuto effetti anche sulla popolazione negativa alla malattia. Quest’anno diversi medici hanno evidenziato significative differenze non solo nei pazienti Covid ma anche in quelli che non avevano questa infezione, sia come tipo di patologia vascolare sia come gravità.  È emblematico il caso delle arteriopatie degli arti inferiori, patologie che normalmente colpiscono le fasce di popolazione più anziane e hanno come fattori di rischio l’aterosclerosi e il diabete: in questo periodo si sono manifestate nei pazienti positivi alla Covid, ma sono stati più frequenti e più gravi in quelli negativi.

Questo si può spiegare con il fatto che, per la paura di spostarsi e per lo stato di emergenza, i pazienti erano più restii a recarsi in ospedale e quindi abbiamo visto quadri più importanti che magari in un ambiente privo di epidemie o comunque in una condizione normale avremmo trattato quasi tranquillamente. Invece in questi mesi, soprattutto per le arteriopatie degli arti inferiori – ma anche i cardiologi hanno visto un aumento degli infarti nella popolazione generale – i pazienti soffrivano a casa invece di presentarsi al pronto soccorso.

Si parla di lunga coda di questo virus, degli effetti sul lungo periodo: per chi ha avuto un’infiammazione vascolare, si può recuperare o il sistema vascolare rimane indebolito?  

In linea generale ogni malattia lascia un segno, e nel caso della Covid questi segni possono essere molto importanti. Quelli principali e quelli più studiati sono quelli polmonari, ma non dobbiamo dimenticarci che anche a livello cardiovascolare è probabile che siano presenti dei segni che nel lungo periodo possono dare problemi più o meno evidenti, a seconda della gravità della dell’infezione.

A livello vascolare, una trombosi lascia sempre una cicatrice, un po’ quello che dicevamo prima sui segni da hockey. Questa cicatrice è causata sia dalla patologia, sia da tutte quelle manovre che vengono messe in atto per guarire il paziente: il paziente con una trombosi arteriosa dell’arto inferiore dovrà essere operato, quindi sia la trombosi sia l’intervento a cui è sottoposto, lasceranno inevitabilmente dei segni che dovranno essere controllati nel tempo. Più importante è sicuramente il problema delle trombosi venose, delle trombosi distali (dal distretto femorale in giù) perché, non avendo a disposizione delle terapie che eliminano in modo istantaneo il problema, come accade per le arterie, la trombosi rimane e si deve effettuare il solito iter terapeutico. Questa formazione di trombi nelle vene anche a distanza di anni può portare a tutto un corredo di sintomi e segni simili a quelli che ritroviamo in una trombosi non Covid. Quindi questi pazienti (parliamo sempre di casi gravi) avranno delle cicatrici che dovranno portarsi per tutta la vita: i controlli post infezione sapranno assolutamente guidare e quantizzare il risultato e gli strascichi dell’infezione stessa.

Qual è stata la sua esperienza in Lombardia, come avete gestito i pazienti Covid e non Covid con patologie vascolari?

La Lombardia è stata una delle zone più colpite al mondo, per questo da subito a livello regionale si è imposta una divisione delle unità operative di chirurgia vascolare in hub and spoke. Gli hub vascolari erano quattro sul territorio lombardo e dovevano garantire un servizio h24, sette giorni su sette, per i pazienti positivi con complicanze a livello vascolare. Gli spot dovevano supportare l’attività degli hub, trasferirvi i pazienti nel caso non potessero curarli in loco e garantire comunque un servizio per i soggetti che si presentavano in pronto soccorso.

Attraverso quindi la Vascular Surgery Group di regione Lombardia stiamo effettuando delle analisi, alcune già pubblicate, in cui abbiamo valutato come è stato l’impatto dell’epidemia Covid negli spot e negli hub durante la fase 1, da marzo a maggio 2020. Sono stati arruolati più di 650 pazienti Covid positivi e negativi e si è visto che le arteriopatie degli arti inferiori sono state le patologie più frequenti nei soggetti positivi al SARS-Cov-2.  I risultati non sono stati simili a quelli che troviamo di solito nella nostra pratica clinica poiché i pazienti Covid positivi esprimevano un grado di retrombosi più grave e una quantità di reinterventi maggiore rispetto a quelli negativi. Inoltre, abbiamo notato molte trombosi su vasi sani di pazienti giovani che presentavano quadri clinici che solitamente ritroviamo in pazienti più anziani e portatori di aterosclerosi. In questo caso erano soggetti con vasi “puliti”, ma che avevano sviluppato trombosi, che è appunto la manifestazione finale della cascata infiammatoria e pro trombotica che la Covid innesca a livello dei vasi, anche in soggetti giovani.

Altre analisi sono in fase di pubblicazione, regione Lombardia si sta muovendo anche in questi mesi per vedere se ci sono variazioni tra la prima e la seconda ondata. Sono ricerche in divenire, solo il tempo ci dirà se i risultati sono confermati o meno e se ci saranno complicanze a lungo termine

Nella sua esperienza, in questa seconda ondata, rispetto alla prima, crede ci sia qualcosa di diverso?

È presto per dirlo, sicuramente anche in questa seconda ondata stiamo riscontrando trombosi, quindi questa patologia è tornata, e malgrado tutte le terapie che stanno funzionando, i tassi di mortalità più bassi e il miglioramento della gestione dei pazienti Covid a domicilio, la patologia vascolare è sempre quella. Forse ora, con questo lockdown più soft rispetto al primo, le persone si fanno meno problemi ad andare in ospedale e non si acutizzano a casa, quindi stiamo vedendo meno quello che succedeva nella prima ondata, con le persone che rimanevano in casa per paura e non si recavano al pronto soccorso. Ma è ancora presto per fare delle valutazioni conclusive.

è ancora presto per fare valutazioni definitive e ci vorranno anni prima di avere qualche certezza. di certo sappiamo che questo virus entra dai polmoni ma può arrecare danni a tutto l’organismo. E può lasciare strascichi importanti a seconda della gravità con cui si è manifestato. E in questa lunga coda non risparmia nessuno, né anziani né giovani.

Guarda il video con l’intervista:

Questa intervista è stata pubblicata anche su Medici Oggi, testata online di Spinger Healthcare Italia: https://medicioggi.it/interviste/covid-19-non-e-solo-una-malattia-respiratoria/.

Fonti

  • Bissacco et al, Is there a vascular side of the story? Vascular consequences during COVID19 outbreak in Lombardy, Italy, Journal of Cardiac Surgery, 04 October 2020 – https://doi.org/10.1111/jocs.15069

  • Bellotosta, D. Bissacco et al, Differences in hub and spoke vascular units practice during the novel Coronavirus-19 (COVID -19) outbreak in Lombardy, Italy, The Journal of Cardiovascular Surgery 2020;61(0):000–000 – DOI : 10.23736/S0021-9509.20.11564-7

  • Bellotosta et al, Acute limb ischemia in patients with COVID-19 Pneumonia, J Vasc Surg. 2020 Dec; 72(6): 1864–1872. 2020 Apr 29. doi: 10.1016/j.jvs.2020.04.483

  • Will Stone, Clots, Strokes And Rashes. Is COVID-19 A Disease Of The Blood Vessels?, npr.org – Novembre 2020.

  • Foto copertina by Jasmin Merdan/Getty Images
AMR

Antibiotico-resistenza: la Covid-19 potrebbe peggiorare la situazione?

Nella settimana dedicata all’uso degli antibiotici è giusto porsi questo quesito, che tanto banale non è.

Perché, secondo alcuni studi recenti, gli antibiotici si continuano a dare anche ai pazienti Covid che non hanno infezioni batteriche evidenti e questo potrebbe inasprire l’antibiotico-resistenza già presente a livello globale: secondo l’OMS entro il 2050 questa condizione potrebbe provocare 10 milioni di morti nel mondo.

Dall’inizio della pandemia da Sars-Cov-2 in Europa sono morte circa 250.000 persone. Ma quest’anno, secondo le previsioni, potrebbero perdere la vita nel Vecchio Continente 30.000 persone a causa dell’antibiotico resistenza (Anti Microbial Resistance, AMR). Larry Kerr, della Transatlantic Task Force on Antimicrobial Resistance, ha paragonato l’AMR a tanti piccoli incendi sparsi per l’Europa che rimangono invisibili rispetto alla catastrofe Covid-19, ma i primi non sono meno pericolosi della seconda.

Che cos’è l’antibiotico-resistenza?

Come suggerisce il nome, si tratta della resistenza da parte dei batteri agli antibiotici che dovrebbero distruggerli o perlomeno bloccarli.
La scoperta e l’utilizzo degli antibiotici hanno rivoluzionato il trattamento di molte malattie infettive. Tutti noi, diverse volte nella vita, abbiamo dovuto assumere un antibiotico, un farmaco che può essere di origine naturale (antibiotico in senso stretto) o di sintesi (chemioterapico), e che è in grado di rallentare o fermare la proliferazione dei batteri. L’antibiotico può essere pertanto batteriostatico (vale a dire che blocca la riproduzione del batterio) o battericida quando uccide direttamente il microrganismo.
Negli ultimi anni, il fenomeno dell’antibiotico-resistenza è aumentato notevolmente al punto da dover prendere provvedimenti a livello di sanità pubblica. Se non si riescono a curare le persone con gli antibiotici occorre infatti capire perché e soprattutto trovare una cura alternativa ed efficace.
L‘Italia poi vanta un triste primato: si calcola che nel nostro paese ogni anno siano circa 10 mila le vittime provocate dall’antibiotico-resistenza su 33 mila complessive in Europa. Siamo quindi il paese europeo con il più alto tasso di mortalità.
L’antibiotico-resistenza è causata soprattutto da un abuso degli antibiotici da parte delle persone, negli allevamenti intensivi e negli ospedali.

Come fanno i batteri a diventare resistenti agli antibiotici?

Esistono molti modi tramite i quali batteri possono acquisire una resistenza ad uno o più antibiotici. Uno dei principali si chiama “pressione selettiva”, quell’evento per cui un antibiotico riesce a eliminare parte dei batteri patogeni e quelli buoni della nostra flora intestinale, ma non riesce ad attaccare i batteri patogeni resistenti. Questi, anche se in numero inferiore, una volta che si trovano il campo sgombro dei batteri fatti fuori dall’antibiotico, possono replicarsi indisturbati. I batteri possono diventare resistenti agli antibiotici anche attraverso la trasmissione orizzontale (da un microorganismo all’altro) del materiale genetico. Questo meccanismo può avvenire tramite la trasmissione di plasmidi, piccoli pezzi di DNA batterico che possono essere facilmente trasferiti tra batteri e che possono far produrre enzimi in grado di conferire la resistenza agli antibiotici.

L’AMR in Italia e nel mondo

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha istituito un programma di sorveglianza globale, noto come GLASS (Global Antimicrobical Surveillance system) per monitorare a livello globale l’antibiotico resistenza e quindi la lotta alla sua diffusione. Al programma aderiscono 82 paesi e secondo uno degli ultimi report, ben 66 di questi hanno fornito dati sull’AMR.
Le indicazioni dell’OMS sono state recepite in Italia nel Piano nazionale di contrasto all’antimicrobico-resistenza (PNCAR) 2017-2020 , con obiettivi di sorveglianza, prevenzione, comunicazione, formazione e ricerca volti a contrastare il preoccupante fenomeno. Nel nostro paese, secondo i dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità, la resistenza agli antibiotici è tra le più alte in Europa.

L’ISS pubblica regolarmente i nuovi dati della sorveglianza nazionale dell’antibiotico-resistenza AR-ISS e quelli della sorveglianza nazionale dedicata alle batteriemie causate da enterobatteri produttori di carbapenemasi (CPE), come le Enterobacteriaceae, famiglie di batteri che producono l’enzima carbapenemasi e per questo non sono più sensibili a una classe di antibiotici di ultima linea, i carbapenemi. Questo significa che l’unica opzione terapeutica utile è rappresentata da altri antibiotici che sono spesso tossici e non sempre efficaci.
Dai due Rapporti emerge che nel 2019 in Italia le percentuali di resistenza alle principali classi di antibiotici per gli 8 patogeni sotto sorveglianza (Staphylococcus aureus, Streptococcus pneumoniae, Enterococcus faecalis, Enterococcus faecium, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae, Pseudomonas aeruginosa e Acinetobacter species) si mantengono elevate e talvolta in aumento rispetto agli anni precedenti. Inoltre, gli oltre 2400 casi diagnosticati e segnalati nel 2019 evidenziano la larga diffusione in Italia delle CPE, soprattutto in pazienti ospedalizzati.

AMR e Covid-19, quale correlazione?

Secondo una revisione sistematica pubblicata sulla rivista Clinical Microbiology and Infection , tra i pazienti Covid ospedalizzati quelli che hanno presentato in questi mesi un’infezione batterica sono stati pochi (6,9%) a fronte però di un uso invece molto elevato di antibiotici, che in molti casi sono usati in modo empirico, vale a dire ancora prima di individuare l’infezione batterica. In via preventiva, per intenderci. Sebbene, infatti, gli antibiotici siano inefficaci per il trattamento della COVID-19, vengono prescritti a pazienti con questa infezione per diversi motivi: difficoltà nell’escludere un’infezione batterica in atto, ma anche per evitare un’infezione secondaria batterica durante il decorso della malattia. Guardando i dati di infezioni batteriche provenienti dalle analisi sulle pandemie influenzali, diverse linee guida sostengono in effetti l’uso di antibiotici per i pazienti con COVID-19 più gravi. Tuttavia, questa ipotesi solleva preoccupazioni per l’uso eccessivo di antibiotici e il conseguente danno associato alla resistenza batterica.

A guardare però altre analisi, la situazione sempre essere diversa, almeno in Europa. In un interessante editoriale su Eurosurveillance.org , si racconta come gli studi finora non riportino prove evidenti tra la Covid-19 e un peggioramento dell’antibiotico resistenza. Alcune ricerche, in particolare Germania, Italia e Stati Uniti, hanno riportato focolai o un aumento delle infezioni oppure acquisizione di batteri multiresistenti durante la pandemia COVID-19. Ulteriori studi hanno riportato casi di infezioni fungine invasive resistenti agli antimicrobici in pazienti COVID-19 e un caso di infezione da Aspergillus in un paziente immunocompetente COVID-19. Tuttavia, altri studi dalla Francia e dalla Spagna non hanno mostrato un aumento delle infezioni da batteri multiresistenti, e uno studio italiano ha anche visto una riduzione delle infezioni da Clostridioides difficile nei pazienti ospedalizzati. In una revisione, Fattorini et al. ha scoperto che solo l’1,3% dei 522 pazienti COVID-19 nelle unità di terapia intensiva, e apparentemente nessun paziente COVID-19 in altre unità, ha sviluppato una superinfezione associata a batteri resistenti agli antibiotici.

Benché non vi sia una prova certa tra la Covid-19 e il peggioramento dell’AMR, l’attenzione deve rimanere molto alta. Su Sanità24, l’infettivologo Massimo Andreoni , Ordinario di Malattie Infettive, Direttore UOC Malattie Infettive Tor Vergata e Direttore Scientifico SIMIT – Società Italiana di Malattie Infettive, spiega come i pazienti a maggior rischio di contrarre infezioni nosocomiali, sostenute da batteri multi-resistenti, siano quelli già più vulnerabili alle infezioni polmonari virali come influenza, sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e appunto Covid-19.

Le cause

Il problema della resistenza agli antibiotici è originato da cause diverse. Una di queste è sicuramente l’utilizzo non appropriato ( o potremmo chiamarlo abuso) di questi farmaci anche quando non è opportuno prenderli.

Tra le altre cause vi sono:

  • Utilizzo improprio degli antibiotici anche nella veterinaria
  • L’impiego diffuso degli antibiotici in zootecnia e in agricoltura ( soprattutto negli allevamenti intensivi)
  • La diffusione delle infezioni ospedaliere causate da microrganismi antibiotico-resistenti (e il limitato controllo di queste infezioni);
  • Una maggiore diffusione dei ceppi resistenti dovuta a un aumento dei viaggi internazionali e dei flussi migratori.

L’uso continuo degli antibiotici aumenta la “pressione selettiva” di cui abbiamo parlato prima favorendo la moltiplicazione e la diffusione dei batteri resistenti. Esistono anche ceppi di batteri resistenti a più antibiotici. I batteri antibiotico resistenti possono diffondersi tra le persone (ad esempio attraverso colpi di tosse, starnuti o il contatto di superfici contaminate), con la conseguente diffusione di infezioni difficili o addirittura impossibili da trattare.

L’antibiotico-resistenza negli ospedali

I pazienti ospedalizzati hanno una più alta probabilità di ricevere un antibiotico.
In ospedale, l’uso inappropriato di antibiotici si può verificare in diverse situazioni, tra cui:

  • Quando gli antibiotici sono prescritti senza che siano realmente necessari
  • Quando la somministrazione di antibiotici in pazienti critici è ritardata.
  • Quando antibiotici ad ampio spettro sono usati troppo spesso, o quando gli antibiotici a spettro ristretto sono usati in modo scorretto
  • Quando la dose di antibiotici è maggiore o minore di quella appropriata per uno specifico paziente
  • Quando la durata del trattamento antibiotico è troppo breve o troppo lunga.

L’uso prudente di antibiotici può prevenire la comparsa e la selezione di batteri antibioticoresistenti, come il Clostridium difficile, uno dei batteri più pericolosi. Alcune misure come la formazione continua, politiche e linee guida basate sull’evidenza, misure restrittive e consulenze da parte di infettivologi, microbiologi e farmacisti possono aiutare il personale sanitario ad utilizzare gli antibiotici in modo più prudente.

Le possibili soluzioni

Negli ultimi decenni, gli organismi internazionali tra i quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Unione Europea (UE) e il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (European Centre for Disease Prevention and Control, ECDC) hanno prodotto raccomandazioni e proposto strategie per contenere il fenomeno, riconoscendo l’AMR come una priorità in un ambito sanitario.
Anche se può sembrare una contraddizione, per limitare l’antibiotico resistenza ci vorrebbero nuovi antibiotici, superantibiotici, capaci di limitare questa resistenza. La pipeline di questi prodotti è però abbastanza esile perché non è facile dimostrarne il valore agli enti regolatori e andrebbe rivisto il sistema di valutazione dell’innovatività di questi farmaci.
L’OMS, in occasione dell’Assemblea Mondiale della Sanità (2015), ha adottato il Piano d’Azione Globale (GAP) per contrastare la resistenza antimicrobica fissando cinque obiettivi strategici finalizzati a:

  1. Migliorare la consapevolezza attraverso informazione efficace a operatori sanitari e popolazione
  2. Rafforzare la sorveglianza
  3. Migliorare la prevenzione e il controllo delle infezioni
  4. Ottimizzare l’uso degli antimicrobici nel campo della salute umana e animale
  5.  Sostenere la ricerca e l’ innovazione.

L’Unione Europea, impegnata da molti anni a combattere il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, nel 2017 ha messo a punto il nuovo Piano d’azione per contrastare l’antibiotico-resistenza, basato su un approccio “One Health” che considera in modo integrato la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente.

La gravità e diffusione di questo fenomeno hanno fatto attivare diversi sistemi di sorveglianza, basati sulla raccolta dei dati di laboratorio a livello locale o nazionale. Al fine di poter rendere interpretabili questi dati, nel 2000 è stata creata una rete di sorveglianza europea che nel 2010 è diventata EARS-Net (European Antimicrobial Resisitance Surveillance Network) coordinata dall’ECDC. EARS-Net rappresenta un network di reti nazionali che raccoglie i dati di antibiotico-resistenza di 30 Paesi europei.
In Italia a monitorare l’antibiotico resistenza è l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) che coordina un network nazionale di laboratori ospedalieri di microbiologia che hanno come obbiettivo quello di descrivere frequenza e trend di antibiotico-resistenza in un selezionato gruppo di batteri isolati da certe infezioni particolarmente rilevanti (batteri nel sangue o meningiti).

I dati sono disponibili on line sul sito e in un rapporto annuale disponibile sul sito stesso dell’ECDC.

Per approfondire:

“Surveillance Atlas of Infectious Diseases”
“Quarta relazione sui progressi compiuti per l’attuazione del Piano d’azione Europeo “One Health” contro la resistenza antimicrobica”
“Piano d’azione europeo “One Health” contro la resistenza antimicrobica
Rapporti di Sorveglianza Nazionali AR-ISS e CPE
European Antibiotic Awareness Day
World Antibiotic Awareness Week

Fonti

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La corsa al vaccino per il Covid-19 servirà davvero?

Vi siete mai chiesti perché ogni anno, anche più di una volta nella stessa stagione, vi prendete il raffreddore? Sì, quella fastidiosa infezione virale causata anche dai coronavirus che vi fa colare il naso, vi causa spossatezza e in alcuni casi febbre, tosse e mal di gola. Che somiglia tanto all’influenza ma con cui non va confusa, perché i virus del raffreddore appartengono a famiglie diverse.

Ve lo prendete con cadenza annuale o pluriannuale perché il coronavirus causa una bassa risposta immunitaria, debole e breve e perché, anche se di poco, muta. Muta quel minimo che però impedisce ai vostri anticorpi di combatterlo in modo efficace, se non per un breve periodo di tempo.

Il vaccino per il raffreddore

Vi siete mai chiesti perché non esiste un vaccino per il raffreddore? Perché la risposta immunitaria che fornisce è troppo bassa e dura troppo poco e perché l’infame virus muta.

Ma finché si tratta di un raffreddore, uno si mette il cuore in pace, passa qualche giorno a letto con paracetamolo o acido acetilsalicilico e aspetta che passi.

Quando invece il coronavirus diventa più virulento e aggressivo, e oltre a febbre e naso colante causa polmoniti interstiziali, in alcuni casi fatali, abbiamo di fronte un nemico infame. Sars-Cov2 è causato da un coronavirus particolarmente virulento, ma che conserva le caratteristiche basilari di tutti i coronavirus. Come può quindi un vaccino essere efficace nel lungo periodo?

La corsa ai vaccini a cui stiamo assistendo tutti, che ricorda un po’ la corsa a conquistare lo Spazio durante la Guerra Fredda ( e infatti il vaccino appena annunciato da Putin è stato chiamato, non a caso, Sputnik) sa tanto di corsa politica ed economica, e meno di corsa a salvare vite umane.

Sul fatto che avere un vaccino sia meglio di non avere nulla siamo tutti d’accordo. Sul fatto che con il vaccino siamo tutti al sicuro invece io mi permetto qualche dubbio. Perché il coronavirus non è gestibile e controllabile come il virus del morbillo, che causa una risposta immunitaria molto più forte e duratura nel tempo. Il coronavirus è una brutta bestia che dovremo imparare a sconfiggere non solo con i vaccini, ma anche con terapie antivirali, antiinfiammatoria, immunomodulanti, cortisoniche e tutto l’armamentario farmaceutico che può venirci utile.

Vaccini, fasi tre velocizzate, human challenge trials e altre meraviglie

Anche se oggi fosse approvato un vaccino, dopo le tre fasi di sperimentazioni, ci vorrebbero almeno 6 mesi di continue valutazioni per testarne la reale efficacia nel tempo. Putin ha appena annunciato il termine della fase tre del suo vaccino Sputnik e ha detto che a settembre (quindi neanche un mese dopo) partirà con la somministrazione agli operatori sanitari. Al di là della forzatura e dei tempi bruciati, c’è il serio rischio non solo che la terapia non funzioni ma che possa essere anche più dannosa del virus stesso. Il tempo è fattore determinante del successo di qualsiasi sperimentazione. Accorciarlo non serve: si gioca a dadi con la fortuna, non si fa scienza. E l’etica della ricerca e il rispetto dei pazienti che si sottopongono a questa cura passano in secondo piano. L’importante è avercela fatta per primi.

Ma oltre al lancio dello Sputnik (nelle vene, questa volta) stiamo assistendo anche al tentativo di testare sulle persone i vaccini allo studio, facendole volontariamente infettare dal virus Covid-19. Al momento, infatti, nelle sperimentazioni ordinarie l’efficacia di un vaccino si misura solo valutando la risposta immunitaria che genera, in termini di qualità, quantità e durata degli anticorpi. Non si testa la cura esponendo il paziente al virus. Non sarebbe etico, giusto?

Però valutare l’efficacia di un vaccino misurando solo la risposta immunitaria non assicura una garanzia sull’efficacia contro il virus reale, anche perché il vaccino di solito (come nel caso del Covid-19) è realizzato con un agente virale che mima, somiglia, si avvicina al virus che si vuole colpire ma non è l’esatta copia. Per cui la certezza dell’efficacia si ha solo nel momento in cui il paziente dovesse contagiarsi davvero.

Ma esiste una forma di sperimentazione diretta sull’uomo, lo Human Challenge Trial, che invece consente, entro certi limiti legali, di esporre i pazienti volontari vaccinati direttamente al virus. Un centinaio di esperti ha scritto una lettera allo US National Institutes of Health chiedendo di iniziare queste sperimentazioni. E l’organizzazione 1 Day Sooner ha lanciato una campagna di reclutamento di volontari in tutto il mondo: al momento ci sono 33.000 volontari di circa 148 paesi.

Questa sperimentazione è stata già fatta in passato? Sì, per tifo, colera e altri…ma in quei casi era disponibile una cura nel caso in cui i volontari si fossero ammalati. Qui invece la cura definitiva non c’è.

Vaccino per il morbillo e vaccino per il raffreddore, che differenza c’è?

La differenza è soprattutto una: il vaccino per il morbillo (che oggi si somministra insieme a quello per la parotite e la rosolia) è fatto con un virus vivente, reso inoffensivo. I vaccini invece a cui si sta lavorando per il Covid-19 sono di tre tipi (RNA, DNA e proteico) e sintetizzati tutti in laboratorio. Per avere un vaccino efficace occorre che sia il più possibile simile a quello reale: nel morbillo si usa lo stesso virus, depotenziandolo, nel Covid-19 si usa un virus fatto in laboratorio: per forza di cose il primo è più efficace del secondo perché più simile al nemico che si vuole sconfiggere. Detto questo, il virus del morbillo genera una risposta immunitaria molto più forte e duratura nel tempo rispetto al coronavirus, come hanno dimostrato recenti ricerche scientifiche secondo cui gli anticorpi del Covid-19 iniziano a calare dopo tre mesi dall’infezione.  In estrema sintesi: se già il virus originale genera una risposta immunitaria debole, come si può pensare che il vaccino, che lo emula, sia più efficace?

Il vantaggio delle terapie

Il Dottor Alberto Enrico Maraolo

Ecco perché, oltre alla corsa per i vaccini, occorre continuare a correre per trovare terapie efficaci che possano aiutare a ridurre l’infezione, l’ospedalizzazione e quindi la contagiosità del virus: “Le terapie antivirali sono quelle che possono avere un impatto sociale più rilevante – ha spiegato Alberto Enrico Maraolo, infettivologo e dirigente medico dell’Ospedale Codugno di Napoli – rispetto alle altre perché diminuiscono il tempo delle ospedalizzazioni e il cosiddetto shedding virale, la contagiosità”. Al momento l’unico antivirale approvato per curare il Covid-19 anche in casa nostra è il Remdesivir, già usato contro il virus Ebola. Questo antivirale è tanto subdolo quanto il virus che punta e distruggere, per questo funziona. Molti virus, come il Covid-19, codificano le loro informazioni genetiche utilizzando un genoma a RNA. Mi sono fatta spiegare dal dottor Maraolo come agisce il Remdesivir.

L’RNA (o acido ribonucleico) è una molecola che regola l’espressione e la decodificazione dei geni. È assemblato come una catena di nucleotidi, brutto nome per indicare le basi azotate, gli elementi di queste catene, senza le quali si spezzano o terminano e le molecole non si possono più replicare. Un vero peccato. Oppure un miracolo nel caso in cui a interrompersi siano le molecole RNA del virus. “Il Remdesivir infatti agisce come una base azotata – chiarisce Maraolo –  ma non lo è veramente. Viene inglobato dalla molecola di RNA che pensa sia un vero nucleotide e invece, come un cavallo di troia, il Remdesivir si inserisce in questa catena e, non essendo una vera base azotata, impedisce la replicazione naturale del virus”.

Ma la lotta non finisce qui. Il Covid-19 è l’infame tra gli infami, perché mentre la maggior parte dei virus a RNA non ha meccanismi che consentono di intercettare basi azotate anomale, lui invece ha questo optional, una sorta di correttore di bozze interno che intercetta i nucleotidi difettosi e li elimina prima che facciano danni. “Ma il Remdesivir riesce a camuffarsi – rassicura l’infettivologo – perché dopo di lui continua a far esprimere le altre basi azotate vere, così il correttore di bozze non si accorge subito dell’anomalia, la catena non è interrotta, pensa che vada tutto bene e in realtà tutto si ferma, la replicazione non è più possibile perché la base azotata finta del Remdesivir blocca il processo di replicazione”. Il virus così finisce il suo viaggio.

Descritto così il processo sembra quasi divertente. “In realtà questo farmaco al momento ha mostrato risultati promettenti solo nei soggetti gravi (con polmoniti e sottoposti a ossigenazione) – sottolinea Maraolo – mentre nei pazienti con sintomi lievi non ha dimostrato un’efficacia statisticamente rilevante. Inoltre, questo farmaco può essere somministrato solo per via endovenosa, per dieci giorni circa. L’ideale sarebbe arrivare a una terapia utile a rallentare, se non fermare, la progressione del virus anche nei soggetti con sintomi lievi, in questo modo si bloccherebbe la contagiosità prima di arrivare a un peggioramento dei sintomi e il soggetto, dopo aver assunto il farmaco, potrebbe uscire di casa in breve tempo, senza sottostare a lunghe quarantene”.

Nel mondo si stanno studiando anche cortisonici come il desametasone o immunomodulanti come il Tocilizumab, ma servono ulteriori dati per dimostrare l’efficacia di queste terapie.

Mentre i paesi sgomitano per trovare il vaccino, ci auguriamo che lavorino altrettanto alacremente per trovare cure efficaci e sicure, su cui poter contare indipendentemente dai vaccini che possono aiutare ma, come abbiamo visto, nel caso del coronavirus possono avere un’efficacia limitata.

L’autunno è alle porte, i focolai aumentano in tutto il mondo e anche nel nostro paese. Al momento è tutto sotto controllo ma con l’abbassamento delle temperature la situazione potrebbe peggiorare.

 

[1] https://www-bbc-com.cdn.ampproject.org/c/s/www.bbc.com/news/amp/health-53426367

[2] https://1daysooner.org/

[3] https://www.nature.com/articles/s41591-020-0965-6

droghe

Abuso di droghe: un problema ancora sottovalutato. E il Covid-19 ha peggiorato la situazione.

Chi abusa di sostanze stupefacenti è un soggetto più a rischio per il Covid-19: perché la sua salute, già cagionevole, lo espone maggiormente al virus e perché l’isolamento causato da questa pandemia lo porterà inevitabilmente ad abusare ancora di più delle sostanze stupefacenti. Un circolo vizioso pericoloso che si porta dietro altri problemi vissuti da chi fa abuso di sostanze, perché il mondo di chi cade nella trappola della droga è costellato di tante, troppe complicazioni: stigma, discriminazioni, emarginazione.

Nella Giornata Internazionale Contro l’abuso e il traffico illecito di droghe il mondo delle associazioni che aiutano chi ha problemi di dipendenza continua a domandare interventi per arginare questi ostacoli e aiutare in modo concreto, non solo da un punto di vista clinico, chi si è perso nel tunnel della droga e non riesce più a uscirne.

Come evidenzia una relazione dell’Osservatorio Europeo delle Droghe e delle Tossicodipendenze, le persone che consumano droghe, confronto alla popolazione generale, a causa di fattori relazionati allo stile di vita e a problemi di salute preesistenti, sono maggiormente a rischio di infezione per Covid-19. Ma il problema, purtroppo, non è solo questo.

Secondo quanto ha dichiarato il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla Salute  questa pandemia ha messo ancora più in evidenza i problemi sociali che affrontano le persone che consumano droghe: criminalizzazione, stigma, discriminazione ed emarginazione. Oltre all’impossibilità, in molti casi, di accedere a un servizio o di ricevere l’assistenza sanitaria adeguata.
La prevenzione della dipendenza, i servizi di trattamento,  di riduzione del danno e reinserimento oggi più che mai sono indispensabili.
Purtroppo, in molti paesi, le istituzioni preposte non sono state in grado di fornire il supporto richiesto a questi servizi e anche nei sistemi sanitari considerati sino ad oggi i più solidi non sono stati forniti agli operatori delle dipendenze né i dispositivi di protezione individuale né le risorse finanziarie per acquistarli.
Malgrado tutto ciò, le associazioni che seguono queste persone, come le Comunità Terapeutiche di Dianova, hanno utilizzato tutte le precauzioni necessarie per tutelare i propri utenti e il proprio personale. Non si sono mai fermate, proprio come gli ospedali.

Dianova Onlus da oltre trent’anni in Italia si occupa del problema della dipendenza da sostanze, droga e alcol, con l’obiettivo di aiutare tanti ragazzi con alle spalle storie di sofferenza e disagio a ritrovare il loro spazio nella nostra società. Una delle campagne che questa associazione sta portando avanti riguarda la possibilità di far riconoscere i servizi per le dipendenze a pari livello dei servizi sanitari essenziali e per ricevere la stessa assistenza e lo stesso supporto, in quanto i disturbi correlati all’uso di sostanze sono una questione di salute pubblica. Se si presenterà un’altra crisi di questa portata, i servizi per le dipendenze non dovranno essere considerati il parente povero del sistema sanitario pubblico.

Ecco cosa ci racconta uno degli operatori che lavora in Dianova:
Siamo stati in grado di disciplinare l’emergenza sanitaria e di reperire ciò di cui avevamo bisogno da soli, continuando a tutelare una costola dolorante della società che pochi curano.
Abbiamo parlato con tutti gli utenti e abbiamo spiegato loro la situazione complessa che si era venuta a creare. Non è stato fargli capire ciò che stava accadendo, stimolarli ad essere pazienti e a sapersi gestire emotivamente. Anche noi abbiamo avuto le nostre paure: noi con le nostre famiglie a casa, noi con i nostri figli soli davanti ad un PC e con le preoccupazioni legate anche alla nostra salute e a quella dei nostri familiari.
Il nostro lavoro è cambiato, la relazione umana è anche relazione fisica, lavorare in una comunità significa accompagnare le persone verso l’acquisizione di una maggiore consapevolezza delle proprie fragilità e sostenerle nel “difficile” percorso che può far si che si trasformino in punti di forza, è un luogo in cui ti rendi conto che ogni singola parola o gesto ha un valore e non puoi permetterti di sottovalutarli; vuol dire toccare con mano, 24 ore su 24, ogni aspetto della vita dei “ragazzi” che vivono qui. La Comunità vera e propria la si “respira” nelle piccole cose quotidiane è lì che spesso riesci a comprendere bene cosa gli utenti stanno vivendo, chi sono, cosa portano dentro di sé; è qui che impari ad ascoltare e osservare, stare con le loro emozioni, spesso “assorbendo” il malessere che esprimono, senza dare soluzioni immediate o giudizi affrettati ma mettendosi nei loro panni per aiutarli a stare con se stessi e con i propri bisogni. Non è affatto facile, a volte si torna a casa arrabbiati, delusi, stanchi e saturi. La comunità spesso assorbe ed esaurisce ogni tua energia, pensiero, emozione”.

Il Covid-19 ha alimentato paure e voglia di isolamento di cui si nutrono le dipendenze con e senza addiction e storicamente e sociologicamente, insieme al rischio di povertà e all’incertezza per il futuro, questi eventi incrementano questi fenomeni.

Credere che le dipendenze patologiche siano un mero problema sociale e non un tema centrale di salute pubblica è un grande errore di valutazione: sono un problema sanitario concreto e per questo garantire i servizi di cura dovrebbe essere la mission di ogni società civile.

Begin

COVID-19: sarà la svolta per il benessere sul posto di lavoro?

Il benessere sul posto di lavoro potrebbe diventare presto un benefit per tutte le aziende. Perché a quanto pare non hanno molta scelta: la pandemia da coronavirus ha portato i dipendenti a vivere e lavorare con maggiori difficoltà e alcuni datori di lavoro si stanno impegnando per salvare il benessere e la salute mentale dei propri dipendenti. Come affermano diverse ricerche sul tema, molti lavoratori affermano di avere a che fare con un qualche tipo di problema di salute mentale o disturbo come ansia, stress, insonnia.

Le cause sono da ricercare nella paura di ammalarsi (propria o dei famigliari), nel timore per le nuove regole di distanziamento sociale, l’utilizzo costante delle mascherine e per il lavoro a distanza. Ci sono aziende che si stanno impegnando per il benessere degli impiegati, puntando non solo sulle lezione di yoga in sede, ma proponendo anche attività che puntano al benessere emotivo e sociale.

Ma siamo solo all’inizio di questa rivoluzione: molti HR Manager ancora non si occupano di benessere sul posto di lavoro in concreto e il 65% dei lavoratori afferma di non ricevere nessun benefit in questo senso. Ne ho parlato con Matteo Piazzi, giovane imprenditore responsabile del progetto Moonly, una startup nata nel cuore delle Dolomiti, all’indomani della tempesta Vaia, che si batte contro stress, ansia, depressione, obesità e insonnia.

Matteo Piazzi

Che cosa sta succedendo tra i lavoratori italiani?

“Ci troviamo in un momento estremamente delicato. Da una parte abbiamo i lavoratori che si sentono depressi e stressati, dall’altra abbiamo i datori di lavoro e i responsabili del personale che sono così indaffarati dalle pratiche amministrative da non avere il tempo per intervenire sul benessere aziendale. È un momento difficile, e lo stiamo notando ogni giorno.”

 Come si stanno muovendo le aziende in questo senso? 

Questa pandemia sta accelerando la nostra previsione sul benessere aziendale: non sono solo le aziende più grandi ad investire sul benessere aziendale, ma anche le più piccole stanno muovendo i primi passi. Le aziende stanno puntando al benessere emotivo, a quello fisico e persino a quello sociale. Ci stiamo rendendo conto che il benessere in azienda è molto più ampio della semplice lezione di yoga che alcune aziende hanno iniziato ad integrare nelle loro sedi.

La ricerca del benessere per i dipendenti potrebbe diventare un benefit permanente?

Ci sono aziende che negli ultimi anni hanno mosso i primi passi nel campo del corporate wellness offrendo massaggi in azienda, lezioni di yoga e persino meditazioni. ma questo non basta per per risolvere il calo della produttività e l’elevato turnover del personale.
Finché approcceremo il benessere aziendale con la stessa filosofia del benessere in generale non potremo mai rivoluzionare l’esperienza lavorativa in azienda. Non saranno lezioni di yoga, sessioni di meditazione, massaggi o consulenze psicologiche a risolvere il problema del burnout che sta letteralmente divorando i lavoratori.
C’è bisogno di un lavoro completo che unisca tutte le aree del benessere, comprese le soft skills tanto ricercate al giorno d’oggi. È da questa unione che possiamo rendere il mondo del lavoro più sano e più produttivo. Bisogna affrontare il benessere aziendale con il doppio dell’efficienza rispetto al classico benessere che troviamo in palestra o alle lezioni di pilates.

È giunto il momento di cambiare la cultura sul posto di lavoro?

Una cosa è certa: i dipartimenti delle risorse umane hanno sulle proprie spalle la più grande responsabilità degli ultimi anni. La ripresa dell’economia è anche nelle loro mani.

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Preprint in ambito scientifico: la “fonte” giornalistica del momento, su cui fare molta attenzione

Secondo uno studio che sarà pubblicato a breve…secondo una ricerca svolta dall’Università degli Studi di… e in via di pubblicazione…Quante volte abbiamo letto articoli iniziare con questo attacco per spiegare i nuovi risultati di ricerche scientifiche? In questi mesi non si legge altro.

“Secondo uno studio” è diventato l’attacco giornalistico del 2020.

Ma se ha senso (con le dovute precauzioni e attenzioni) raccontare i risultati di studi pubblicati su riviste scientifiche, ha meno senso pubblicare qualsiasi documento scientifico che non sia stato sottoposto a peer review, quella sacrosanta revisione fra pari che, in ambito accademico permette, attraverso attente analisi di metodo e di merito, di pubblicare uno studio sulle riviste scientifiche più prestigiose.

I manoscritti non ancora pubblicati su riviste di settore si chiamano preprint, e hanno una tradizione scientifica tutta particolare, fondata sulla condivisione dei risultati di uno studio tra ricercatori, prima della sottomissione del documento a una rivista: una sorta di richiesta di opinioni, di volontà di tastare il terreno e prendere le misure prima del grande passo, vale a dire la richiesta di revisione ufficiale per essere pubblicati su una rivista prestigiosa.

In questi tre mesi in cui un coronavirus sconosciuto ha cambiato la storia dell’umanità e in cui la comunità scientifica sta lavorando probabilmente come mai prima d’ora, sono apparsi studi e pubblicazioni scientifiche praticamente ogni giorno. Pubblicati o in versione preprint, senza che il pubblico avesse ben chiara la differenza, perché la differenza molte volte non era spiegata. E il pubblico, avido di notizie, non aspetta altro che leggere nuovi dati, analisi, nuovi scenari che spieghino in via definitiva contro cosa stiamo lottando.

Noi giornalisti abbiamo un compito supremo e indispensabile: saper selezionare le fonti per comunicare le informazioni essenziali ai cittadini

Allo stesso tempo, dobbiamo essere in grado di arginare quella “infodemia” di cui ha parlato l‘Organizzazione Mondiale della Sanità fin dal principio di questa pandemia, ma che sta ancora dilagando e gli argini non sembrano sufficientemente forti.

Come si possono quindi costruire argini forti? Selezionando le fonti e le notizie da pubblicare, perché tutto può essere interessante, è vero, ma in un momento in cui l’utente medio riceve più informazioni di quelle che riesce a processare, come in questo periodo, è meglio selezionare le notizie che siano davvero utili e che possono portare un valore aggiunto a quanto si sa fino a questo momento.

Il successo dei preprint

Fino a circa 10-15 anni fa, le università e gli enti di ricerca sottoscrivevano abbonamenti cartacei per le riviste scientifiche, successivamente sostituiti da pacchetti online only. Il concetto di preprint, ovvero di manoscritto non sottoposto a revisione e condiviso a titolo gratuito su un archivio online, risale al 1991 con l’introduzione del repository di manoscritti per la fisica arXiv. Il preprint si riferiva quindi a un documento che non era stato ancora sottoposto a peer review e non era stato quindi pubblicato su riviste scientifiche cartacee.  I manoscritti erano appunto condivisi con la comunità scientifica prima della stampa che – con qualche rara eccezione – oramai non avviene più. All’epoca questo tipo di servizio era confinato a comunità scientifiche di nicchia, con una diffusione dell’informazione molto limitata.

Molto spesso, questi studi sono pubblicati su siti dedicati in cui altri ricercatori possono lasciare commenti in una sorta di revisione tra pari della comunità. Le due principali piattaforme di preprint ad oggi sono MedRxiv, lanciato nel 2019 e BioRxiv lanciato nel 2013. Esistono anche archivi simili per altre aree disciplinari (ad esempio ChemRxiv, Psyarxiv, etc.)

Se i preprint non sono nuovi per la comunità scientifica, la loro popolarità è cresciuta ultimamente tra i giornalisti soprattutto in questa pandemia di COVID-19. Ma prima di pubblicarne il contenuto occorre prestare attenzione a diversi aspetti, prima fra tutti l’impatto che certi studi possono avere sull’opinione pubblica.

I preprint infatti nascono con l’intento di rendere visibili i lavori scientifici alla comunità scientifica, per avere feedback, commenti e anche critiche costruttive da altri scienziati e addetti ai lavori: questo è un lavoro prezioso tramite il quale l’autore o gli autori dello studio posso valutare la portata della loro ricerca, fare eventuali modifiche prima di sottoporla a peer review o, addirittura, in alcuni casi, decidere di non sottoporre il manoscritto a revisione scientifica. È una sorta di potente anticamera alla pubblicazione definitiva basata su un confronto tra scienziati. È nata per questo scopo e va intesa per questo scopo.

Se il documento è un preprint, questa informazione deve essere riportata bene in evidenza nella parte superiore del documento, accanto al titolo e agli autori. Come in questo esempio:

Questi documenti sono utili per la ricerca, ma prima di darli in pasto ai lettori che mediamente non conoscono (a meno che lo si spieghi correttamente) la differenza tra un manoscritto e un vero e proprio articolo scientifico, bisogna pensarci bene.

Soprattutto su temi come il COVID-19. Perché di questo virus ad oggi si sa poco, ogni giorno alcune certezze acquisite possono trasformarsi in dubbi e un preprint su questi temi, proprio per l’insicurezza dell’argomento,  potrebbe essere interessante, ma non ottenere mai una pubblicazione, oppure potrebbe essere pubblicato con modifiche, o essere rigettato.

Bisogna saper leggere i dati e saper comprendere i risultati di uno studio di ricerca. Purtroppo, se non si ha un’adeguata preparazione, non è facile individuare difetti metodologici e affermazioni fuorvianti, elementi che potrebbero emergere dopo un’attenta revisione da altri ricercatori, passaggio chiave per poter vedere il lavoro pubblicato. In questo articolo del New York Times si spiega ancora meglio cosa stia accadendo.

Non solo preprint: fate attenzione a qualsiasi studio mai pubblicato

Ma oltre ai preprint occorre fare attenzione anche all’annuncio di studi realizzati da università o enti di ricerca, ma mai pubblicati su riviste scientifiche.

Poche settimane fa molti giornali hanno ripreso la notizia di uno studio secondo cui il virus in un ristorante con aria condizionata potrebbe circolare molto più facilmente. Lo studio era preliminare,  e sarà pubblicato a luglio, eppure molti giornali ne hanno parlato come se fosse uno studio già pubblicato. Scrivere che sarà pubblicato a luglio come giustificazione per parlarne ha poco senso se chi legge (il lettore medio) non ha ben chiara la differenza tra un preprint e uno studio pubblicato. Perché da qui a luglio le informazioni potrebbero cambiare e lo studio potrebbe essere modificato, aggiornato oppure ritirato.

Serve davvero pubblicare tutte queste informazioni che gettano solo dubbi, ipotesi e chiaroscuri su un tema, la pandemia, di cui si hanno poche certezze? È utile pubblicare qualsiasi notizia in merito, anche se preliminare, abbozzata, ipotetica e non supportata da forti evidenze scientifiche?


Alessandro Gallo

Ho provato a chiedere qualche consiglio a chi conosce questo settore, come Alessandro Gallo, direttore della casa editrice Springer Healthcare Italia, Alessandro Gallo:

I manoscritti pubblicati su MedRxiv (o BioRxiv) sono dei validi riferimenti bibliografici?

Un autore può inviare un manoscritto (preprint) a questi archivi prima di decidere di sottoporlo alla peer review di una rivista internazionale. Al preprint è assegnato d’ufficio un DOI (Digital Object Identifier), entro qualche giorno dalla sottomissione. Successivamente, il manoscritto può (o meno) essere inviato a una rivista ufficiale. All’autore possono essere richieste revisioni minime o sostanziali, per cui il testo ufficialmente approvato e pubblicato, successivamente, su una rivista internazionale potrebbe differire notevolmente. Il manoscritto originario resterà su MedRxiv. A questo proposito, consiglio la lettura approfondita delle FAQ pubblicate su MedRxiv https://www.medrxiv.org/about/FAQ  

Quali sono le principali criticità nel leggere un preprint?

In epoca COVID-19 c’è stata una vera e propria esplosione di contenuti caricati su questi repository (si parla di oltre 3000 contributi in pochi mesi, in particolare su MedRxiv). Nonostante un accesso immediato alla ricerca sia stato garantito anche da parte dei grandi editori per contenuti ufficialmente revisionati e pubblicati, il rischio di poter aver accesso a contenuti non validati è aumentato notevolmente, con diffusione quotidiana di bozze di manoscritti con diverse versioni che circolano in maniera incontrollata e che talvolta vengono utilizzati dalla stampa, anche specializzata, per campagne di comunicazione non sempre basate su evidenze fondate. A questo proposito è doveroso un approfondimento sui vantaggi e i limiti dei repository di preprint e suggeriamo un articolo pubblicato su Nature Preprints are good for science and good for the public https://www.nature.com/articles/d41586-018-06054-4

I contenuti caricati sui repository di preprint sono davvero senza filtri?

Recentemente MedRxiv ha cominciato ad applicare dei filtri nel caricamento dei manoscritti, per limitare la proliferazione di contenuti non reviewed dalla comunità scientifica. A questo proposito invitiamo a leggere un altro articolo recentemente pubblicato su Nature in riferimento a questi servizi Preprints: How swamped preprint servers are blocking bad coronavirus research https://www.nature.com/articles/d41586-020-01394-6

Anche a causa della notevole eco mediatica, i repository di preprint sono corsi ai ripari, implementando dei meccanismi di filtro (ad esempio non è più consentito caricare manoscritti relativi al COVID-19 basati unicamente su modelli computazionali). Sono inoltre stati messi a punto dei protocolli di verifica dei contenuti (controlli anti-plagio e dell’accuratezza dei contenuti realizzati dal personale interno). Successivamente, i manoscritti sono esaminati su base volontaria da accademici specializzati nel campo. Le verifiche sono più rapide su BioRxiv (2 giorni) rispetto a medRxiv (4-5 giorni), poiché i contenuti pubblicati su quest’ultimo repository possono avere un impatto più diretto sulla salute umana.

Inoltre, ci sono specifici controlli per evitare la diffusione incontrollata di informazioni non verificate (ad esempio: i vaccini causano l’autismo). Il rischio è, in ogni caso, che si prendano per buoni dei dati che non sono ancora stati sottoposti a revisione e che in futuro potrebbero essere messi in discussione.

Un articolo pubblicato su una rivista scientifica, sottoposto a peer review, è quindi una fonte ufficiale più affidabile?

Non necessariamente. Nonostante le numerose revisioni a cura di diversi esperti, interni o esterni, i board editoriali delle più importanti riviste scientifiche non sono esenti da errori, anche se non sono sempre direttamente responsabili di errate valutazioni. La responsabilità dei risultati pubblicati è, in ultima istanza, sempre in carico agli autori. Non sono rare le “retractions”, vale a dire i casi in cui gli studi sono ritirati dalle riviste scientifiche,  come il caso dell’articolo pubblicato su Nature qualche anno fa in cui si sosteneva che la tecnica di editing genetico CRISPR-Cas9 avrebbe potuto creare significativi danni collaterali al genoma (https://www.nature.com/articles/nmeth.4293#correction3). Su questo articolo specifico, sul portale “Retraction Watch” c’è un’analisi molto dettagliata della corrispondenza tra gli autori e la rivista, nonché sulle motivazioni che hanno portato al ritiro del manoscritto: https://retractionwatch.com/2018/03/30/nature-journal-retracts-controversial-crispr-paper-after-authors-admit-results-may-be-wrong/


Che tu sia un giornalista, un blogger, un divulgatore scientifico o un semplice appassionato di scienza e medicina che voglia condividere informazioni con il grande pubblico, prima di pubblicare i contenuti di un preprint, prendi in considerazione questi aspetti:

  • Non è stato sottoposto a una revisione approfondita a cura di esperti del settore prima della pubblicazione. Quindi non si sa se le metodologie usate e le analisi statistiche effettuate siano adeguate.

  • Anche nel caso in cui il manoscritto fosse successivamente pubblicato su una rivista scientifica e diventasse un articolo “accademico” a tutti gli effetti, è sempre opportuno effettuare una ricerca bibliografica approfondita, a margine, per verificare l’attendibilità della fonte, il numero di pubblicazioni a cura di quel gruppo di ricercatori sull’argomento affrontato, il numero e la qualità dei riferimenti bibliografici presenti sull’argomento in letteratura.

  • Se sei un giornalista o scrittore con una preparazione medica probabilmente sai cosa andare a cercare e sei in grado di capire se i metodi e le analisi effettuate sono forti e consistenti. Se non disponi di queste competenze, lascia stare il preprint o affidati a un esperto. E se ti sei affidato a un esperto, segnalalo nel pezzo: è corretto nei confronti dei lettori, nei confronti di chi ti ha aiutato e dà autorevolezza al tuo lavoro.

  • Anche se hai un background scientifico, potresti non avere le competenze necessarie per la lettura di dati statistici che sono quasi sempre al centro degli assunti pubblicati. Ci sono spesso errori grossolani nell’interpretazione di dati statistici anche elementari. Presta attenzione!

  • Consulta ricercatori del settore della pubblicazione che non sono stati coinvolti nella ricerca: questo vale per qualsiasi studio, ma vale ancora di più per i preprint perché non sono stati revisionati dalla comunità scientifica.

  • Monitora i progressi del preprint, perché potrebbe essere ritirato dagli stessi autori prima di essere sottoposto a revisione. Se questo succede e tu hai parlato del preprint, sarebbe corretto aggiornare il tuo articolo o segnalare comunque che lo studio è stato ritirato.

  • Il preprint, inoltre, non sarà mai cancellato dai repository: resterà sempre online con un DOI, anche nel caso in cui non fosse mai pubblicato su una rivista scientifica (vedi FAQ MedRxiv).

  • La versione finale pubblicata sulla rivista scientifica potrebbe differire anche in maniera sostanziale da quella iniziale. Controlla sempre quale versione stai utilizzando e se ci sono diverse “copie” in circolazione.

Fonti:

https://healthjournalism.org/blog/2020/04/beware-the-preprint-in-covering-coronavirus-research/

https://journalistsresource.org/tip-sheets/research/medical-research-preprints-coronavirus/

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